Opéra in quattro atti su libretto di Victor-Joseph-Étienne de Jouy e Hippolyte Bis. Gerald Finley (Guillaume Tell), John Osborn (Arnold Melcthal), Malin Byström (Mathilde), Sofia Fomina (Jemmy), Enkelejda Shkosa (Hedwige), Eric Halfvarson (Melcthal), Nicolas Courjal (Gesler), Alexander Vinogradov (Walter Furst), Michael Colvin (Rodolphe), Enea Scala (Ruodi), Samuel Dale Johnson (Leuthold), Royal Opera Chorus, Renato Balsadonna (direttore),Orchestra of the Royal Opera House, Antonio Pappano (direttore). Damiano Michieletto (regia), Paolo Fantin (scene), Carla Teti (costumi). Registrazione: Londra, Royal Opera House of Covent Garden, 5 luglio 2015. T.Time: 201′ Opera – 15′ extras 1 DVD OPUS ARTE OA 1205 D
Il “Guillaume Tell” ha cominciato ad essere allestito regolarmente nell’originale francese solo negli ultimi anni. Non sorprende quindi che la disponibilità di registrazioni video sia molto limitata. Di fatto questo allestimento londinese è solo la seconda edizione disponibile sul mercato dopo quella pesarese firmata da Vick e Mariotti e ancora una volta ci troviamo di fronte ad un prodotto di teatro e di regia molto estremo. Resta, dunque, la lacuna di una produzione più tradizionale e rispettosa delle volontà dell’autore.
Rispetto a quanto fatto a Pesaro da Vick Damiano Michieletto riesce a essere più convincente per la sua capacità di raccontare una storia che per quanto spesso stridente con musica e libretto ha una sua coerenza interna e una sua efficacia teatrale ed emotiva dove a Pesaro tutto si raggelava in una pura esibizione di propaganda ideologica. L’ambientazione scelta da Michieletto è moderna anche se priva di specifici connotati cronologici o ambientali e se all’Austria rimanda solo una sparuta bandierina asburgica manca ogni accenno alla Svizzera mentre i costumi alternano divise da corpi speciali contemporanei per i soldati ad abiti anni 40 per il popolo. La scenografia è astratta, uno spazio vuoto, asettico, forse un rifugio antiaereo nel I atto, lo stesso ambiente ma dominato da un grande albero abbattuto nei successivi.
La regia è nel bene e nel male l’essenza dello stile di Michieletto. Grazie a una capacità rara di lavoro sui singoli e sulle masse da cui sa trarre una recitazione quasi cinematografica per naturalezza e intensità, Michieletto cede veramente a pochi sul piano della tecnica teatrale. Di contro a volte risulta prigioniero dei suoi stessi schemi con soluzioni che ritornano troppo simili da uno spettacolo all’altro così come più di una perplessità suscita l’indulgere a una violenza gratuita, a un gusto del male per il male, della violenza che giustifica e si appaga di se stessa. Come spesso accade con tagli registici di questo tipo i balletti vengono trasformati in pantomime teatrali culminanti nell’ormai immancabile scena di stupro mentre manca la componente di danza vera e propria che pure avrebbe una sua funzione nell’estetica del grand-opéra.
Antonio Pappano arriva a questa produzione dopo il rodaggio delle recite di Santa Cecilia e fornisce forse la miglior direzione ascoltata dell’opera. Per Pappano il “Guillaume Tell” è un unico, grande flusso, un fiume di suono che scorre riflettendo i mille colori delle foreste e delle montagne che attraversa. Una lettura unitaria, quasi da dramma musicale, in cui i singoli numeri chiusi si inseriscono come parte di un flusso più ampio che trova il suo culmine nell’ondata sonora ed emozionale del grande finale, sfogo gioioso e sublime del grande fiume musicale di Pappano che compensa ampiamente la banalità delle immagini di Michieletto in questo momento. Ma tutta l’orchestra è un trionfo di colori, di riflessi, di sfumature, di passioni romantiche. A rendere possibile la piena riuscita della prova di Pappano sono poi i complessi londinesi di altissima statura in tutte le componenti (semplicemente maiuscola la prova del coro).
Il “Guillaume Tell” è però anche e soprattutto opera per grandi voci e, pur con una grave pecca, la compagnia messa insieme per questa produzione è di altissimo livello. Gerald Finley è un eroe eponimo di grande spessore, autorevole nel canto e nella presenza scenica, un autentico capo popolo dall’autorità quasi profetica ma capace anche di una profonda, intensa umanità nella scena con Jemmy del III atto. La voce è molto bella, la tecnica solida, dizione e accento sempre curati. Finley trova dopo Sachs un altro personaggio in cui si farà ricordare. La parte di Arnold è fra i massimi cimenti della vocalità tenorile di ogni tempo e John Osborn si conferma l’Arnold per antonomasia dei nostri tempi. La voce non è forse di quelle timbricamente baciate dal cielo e qualche difficoltà si avverte in alcuni punti, ma c’è sempre una presenza, una robustezza, un’eroicità che sono perfette per il personaggio e che difettavano invece nel pur vocalmente valido Florez della produzione pesarese. Osborn non è poi solo un cantante ma un interprete sempre attento e originale – si veda l’attenzione con cui sono affrontati i recitativi – capace di dare al personaggio una consistenza che supera la mera prodezza vocale. Manca invece purtroppo Mathilde. Malin Byström è bellissima, bionda, elegante, la principessa delle favole che tutti immaginiamo. Ma, tolti il fascino scenico e un’indubbia professionalità, resta ben poco. Il timbro è anonimo, poco personale, molto meno seducente della figura; gli acuti risultano spesso faticosi oltre ad appalesarsi una totale estraneità al canto di coloratura che nell’aria del III atto risulta fin troppo palese. Troppo poco per Mathilde specie in questo contesto. Come Melcthal Eric Halfvarson sfoggia una voce imponente ma risente di un’emissione più adatta al repertorio tedesco che alla vocalità rossiniana. Vocalmente bravissima e scenicamente semplicemente strepitosa, Sofia Fomina nel ruolo en-travesti di Jemmy. Enkelejda Shkosa, rossiniana di lunga esperienza, è una Hedwige ottimamente cantata e dal bel timbro pieno e materno. Nicholas Courjal non solo canta splendidamente e con voce molto bella ma riesce a rendere alla perfezione la ferocia di Gesler. Alexander Vinogradov è un ottimo Furst; Enea Scala affronta il ruolo del pescatore Ruodi con voce più importante e robusta di quanto tradizione voglia ma regge ugualmente con sicurezza la non facile tessitura; abbastanza rozzo il Leuthold di Samuel Dale Johnson, ben cantato e giustamente odioso il Rodolphe di Michael Colvin.