Venezia, Teatro La Fenice, Stagione lirica 2018-2019
“MACBETH”
Melodramma in quattro parti su libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Macbeth LUCA SALSI
Banco SIMON LIM
Lady Macbeth VITTORIA YEO
Dama di Lady Macbeth ELISABETTA MARTORANA
Macduff STEFANO SECCO
Malcom MARCELLO NARDIS
Il medico ARMANDO GABBA
Domestico di Macbeth ANTONIO CASAGRANDE
Sicario EMANUELE PEDRINI
Araldo UMBERTO IMBRENDA
Tre apparizioni Solisti dei “Piccoli Cantori Veneziani”
Orchestra e coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Coro di voci bianche diretto da Diana D’Alessio, Elena Rossi
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Light designer Fabio Barettin
Movimenti coreografici Chiara Vecchi
Nuovo allestimento Teatro La Fenice
Venezia, 29 novembre 2018
Decimo titolo del catalogo verdiano, il Macbeth è l’opera inaugurale della nuova stagione lirica del Teatro La Fenice, dove è tornata dopo più di trent’anni. Si tratta di un evento particolarmente atteso, perché vedeva la partecipazione di due personalità artistiche, che, si può dire, sono di casa nel teatro veneziano: il maestro Myung-Whun Chung – al suo debutto nel capolavoro verdiano – e il regista Damiano Michieletto, che faceva prevedere un allestimento, come d’abitudine, fantasioso e originale. “Il velame del futuro”, che il protagonista del dramma, roso dal senso di colpa e dal timore del castigo, dichiara di voler squarciare, interrogando le streghe, si concretizza, nella concezione del vulcanico regista veneziano, in una serie di velari semitrasparenti di nylon, che dividendo la scena o avvolgendo i corpi dei personaggi defunti, marcano, con la loro sottile consistenza, il labile confine tra il naturale e il soprannaturale, il conscio e l’inconscio, la vita e la morte. È questo uno degli elementi simbolici, caratterizzanti l’allestimento curato da Michieletto, che, del dramma verdiano e shakespeariano, mette in evidenza il movente psicologico, più che quello politico, proponendone una lettura in chiave psicanalitica.Così i due protagonisti – lungi dal rappresentare due personaggi storici – sembrano concepiti come altrettante parti distinte di una stessa individualità psichica, complessivamente segnata dal dramma della mancata procreazione. Tale dramma starebbe alla base di spietate azioni delittuose come di conflitti interni alla coppia. Macbeth (la parte più debole) soffre, secondo l’interpretazione di Michieletto, per la perdita di una figlia e cerca, di accedere, attraverso le streghe, a una dimensione ultraterrena, in cui entrare in contatto con la bambina scomparsa. Lady Macbeth (la parte più forte) spinge spietatamente il marito alla conquista del potere e al delitto, richiamandolo continuamente alla realtà. La ricorrente presenza sulla scena di bambini – oltre alla figlia perduta di Macbeth, anche il figlio di Banco e i due figli di Macduff – avvalora l’impostazione, testé sintetizzata, in quanto costituisce un modo per alludere all’invidia provata da Macbeth per chi ha la fortuna di avere dei figli con la conseguente smania di infanticidio. Legata al mondo infantile è anche la foresta di altalene, appese a lunghissime catene, che evoca quella di Birnam: l’altalena come gioco, ma anche come simbolo del non infrequente vacillare del trono. Come si vede, si tratta di una concezione registica fatta di elementi di natura psicologica, simbolica, visionaria, che rifugge da ogni facile effetto truculento: anche il sangue diventa così una materia bianca, che non turba l’astrattezza di un allestimento – fatto di plastica e, appunto, di colore bianco –, al quale ha contribuito non poco la scena fissa di estrema essenzialità, fiancheggiata da bianchissime luci al neon, al pari dei costumi contemporanei, lontanissimi da ogni caratterizzazione guerresca. Nel complesso la regia, seppur per alcuni aspetti alquanto discutibile, è apparsa innegabilmente dotata di una certa sua coerenza interna.
Sul versante musicale, Myung-Whun Chung si è confermato uno dei più grandi direttori del nostro tempo, oltre che nel repertorio sinfonico, anche in quello operistico. Il maestro sudcoreano ha infatti dimostrato grande attenzione per il suono, sempre nitido e brillante, oltre che sensibilità e intelligenza nell’assecondare i cantanti in questo melodramma, in cui la parola deve emergere in tutta la sua forza espressiva, dalle romanze ai declamati, agli ariosi: un’arte che non è di tutte le attuali bacchette alle prese con il canto lirico. La sua approfondita lettura del capolavoro verdiano – opera di frontiera, la più sperimentale dei cosiddetti “anni di galera”, proposta nella versione del 1865 – si basa su forti contrasti a livello dinamico e timbrico – con le percussioni che sprigionano talora una forza tellurica e le sonorità degli ottoni che brillano, eleganti, di riflessi dorati – e su una diffusa stringatezza nei tempi, che concorre a rendere particolarmente incalzante la progressione drammatica. Precisa e scattante l’orchestra in vero stato di grazia, nonché in perfetta simbiosi con il direttore. Di valore il Cast, a partire dal baritono Luca Salsi – Macbeth di riferimento sulla scena internazionale –, che ha offerto un’interpretazione molto intensa ai limiti dell’espressionismo, segnalandosi per il fraseggio scolpito nelle arie come nel declamato, dove aveva assoluta rilevanza la parola scenica, secondo gli intendimenti di Verdi, che richiedeva ai due protagonisti qualcosa di completamente diverso dalla bellezza ideale del belcanto. Positiva (soprattutto per presenza scenica e aderenza alla lettura registica), a suo modo la prestazione di Vittoria Yeo (chiamata a sostituire la prevista Tatiana Serjan), pur non presentando le caratteristiche vocali auspicate dall’autore – che voleva per Lady Macbeth una voce “aspra, soffocata, cupa”. Col suo bel timbro omogeneo di soprano lirico (non però d’agilità), senza però il peso vocale che richiederebbe la parte, è riuscita nondimeno a tratteggiare un personaggio sufficientemente credibile, senza però una autentica personalità interpretativa, pur dimostrando di conoscere il ruolo (nel fraseggio manca però quell’alone “satanico”, che accompagna il personaggio verdiano). Ottimo Simon Lim nel ruolo di Banco, che ha dimostrato, come al solito, una solida professionalità. Analogamente valida la prova offerta da Stefano Secco un Macduff incisivo e sufficienteme vario. Buono anche l’apporto degli altri interpreti: a partire dal sicuro e sempre musicale Marcello Nardis (Malcom), a Armando Gabba (Medico), Elisabetta Martorana (Dama) fino a Antonio Casagrande (Domestico), Emanuele Pedrini (Sicario), Umberto Imbrenda (Araldo) . Ineccepibile per qualità del suono e fraseggio il Coro, preparato da Claudio Marino Moretti. Una menzione anche per il Coro di voci bianche diretto da Diana D’Alessio e Elena Rossi. Successo per tutto il cast, con particolare slancio, per il festeggiatissimo Myung-Whun Chung. Foto Michele Crosera