Madrid, Teatro Real, Temporada 2018-2019
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, tratto dall’omonima favola di Carlo Gozzi
Musica Giacomo Puccini
Turandot IRÉNE THEORIN
Altoum RAÚL GIMÉNEZ
Timur ANDREA MASTRONI
Calaf GREGORY KUNDE
Liù YOLANDA AUYANET
Ping JOAN MARTÍN ROYO
Pang VICENÇ ESTEVE
Pong JUAN ANTONIO SANABRIA
Un mandarino GERARDO BULLÓN
Coro y Orquesta Titulares del Teatro Real
Pequeños Cantores de la JORCAM
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del Coro Andrés Máspero
Maestro del Coro di voci bianche Ana González
Regia, scene e luci Robert Wilson
Costumi Jacques Reynaud
Nuova produzione del Teatro Real, in coproduzione con Canadian Opera Company Toronto, Teatro Nazionale della Lituania, Houston Grand Opera
Madrid, 16 dicembre 2018
Una totale abdicazione alle pretese del realismo; addirittura la rinuncia a voler presentare uno sviluppo drammatico coerente: questa sembra essere la via, anticonformista e affascinante, che Robert Wilson propone nella messa in scena di un melodramma come Turandot di Puccini. Sottrarre allo spettacolo scene, oggetti, relazioni corporee, gestualità e movimenti dettati dal procedere della vicenda, si configura come una reazione polemica all’eventualità (sempre più in voga) di far vivere il teatro musicale al pari di una sequenza cinematografica o, peggio ancora, di una serie televisiva o un reality show. A diventare essenziali, negli spettacoli di Wilson, sono la luce, il movimento individuale, l’effetto emozionale provocato dai colori del costume e il contrasto del trucco a seconda della tipologia di personaggio. Un’operazione di questo tipo sarebbe assurda per Bohème o Tosca, ma nel caso di Turandot funziona benissimo; il pubblico del Teatro Real di Madrid dimostra pieno apprezzamento per un allestimento che restituisce a questa problematica e incompiuta partitura il suo valore essenziale, quello del simbolo. Ogni produzione di Wilson permette in effetti allo spettatore di concentrarsi sulla musica, ma sarebbe errato parlare di minimalismo o di riduzione delle prerogative del regista; al contrario, in questa Turandot coprodotta tra Madrid, Canada, Lituania e Houston, l’alternanza di staticità e mobilità imita il susseguirsi di blocchi musicali disparati (il terzetto delle maschere vs. la scena degli enigmi); inoltre – sebbene sembri paradossale – va riconosciuto che pochi registi oggi curino più minuziosamente di Wilson la gestualità e la recitazione dei personaggi. Essi si schierano in file, si allineano, avanzano e retrocedono in controcanto, muovono braccia o mani o teste o soltanto dita insieme al coro, in una “coreografia della recitazione” che abbina al canto movimenti basilari di una danza stilizzata, sempre motivati dalla dimensione musicale. La partitura si riflette pertanto sui movimenti del palcoscenico secondo una gerarchia ovviamente stabilita dal regista, eppure sempre derivante dalla musica, non già da esigenze narrative personali. Se compare un elemento scenico, esso corre sempre in direzione del simbolo, come la grata labirintica con sui si apre il III atto, segno della tortuosità e confusione del pensiero di Calaf, forse pentito della troppo generosa concessione alla principessa altera, certo angustiato da una notte spaventosa che sembra non finire mai. Il simbolo centrale dell’opera, comunque, è la stessa Turandot: immateriale, non umana, addirittura inesistente (secondo le corrosive insinuazioni di Ping, Pang e Pong). Si può dire che Wilson sia riuscito a rappresentare Turandot in chiave astratta e smaterializzata, ossia dal “disumano” punto di vista della stessa protagonista. Non a caso, nel corso del duetto conclusivo, appena la principessa afferma di conoscere il nome del principe ignoto, questi scompare nel buio, come inghiottito dall’apoteosi finale, che è solo per Turandot, immobile al centro della scena. Due grandi professionisti prestano la loro voce ai personaggi principali: Iréne Theorin è una Turandot dalla voce penetrante, ben sostenuta, anche se nel corso del II atto tendente all’emissione forzata, quasi al grido; l’espressività migliora nel III atto, quando le si ascoltano anche mezze voci e buone prove di fraseggio. Gregory Kunde è il tenore dalle risorse vocali infinite e stupefacenti: se nel registro centrale il timbro risente come di una velatura, un leggero offuscamento (che peraltro lo caratterizza da parecchi anni), gli acuti sono pieni, squillanti, stentorei ed emessi senza alcuna difficoltà: il suo è un Calaf pacato e saggio, più che eroicamente irruento, ma grazie al trucco e al costume, che lo presentano impietrito, questa attitudine scenica si coniuga perfettamente con le intenzioni della regia. Dopo la sua prima aria, Yolanda Auyanet non raccoglie il consenso degli spettatori, ma cresce in sicurezza e plausibilità della linea di canto nel corso della recita, disimpegnandosi bene in «Tu, che di gel sei cinta» del III atto. Splendido il trio di maschere, capace di una recitazione mobilissima e al tempo stesso di un canto bene integrato dai vari timbri: spicca il tenore Juan Martín Royo nel ruolo di Ping; più inclini al caratterismo comico sono Vicenç Esteve e Juan Antonio Sanabria, rispettivamente Pang e Pong. Andrea Mastroni è un Timur convincente, come sempre, mentre il mandarino di Gerardo Bullón appare in difficoltà con le puntature; l’Altoum di Raúl Giménez è corretto, anche se un po’ nasale. Ottimo il Coro del Teatro Real, istruito da Andrés Máspero. A concertare e dirigere complessi e solisti è Nicola Luisotti, molto apprezzato dal pubblico di Madrid per il suo vigore e la sveltezza impressa all’esecuzione; tende a sonorità forti, quando non fragorose, ma senza pregiudicare l’emissione dei cantanti. Sembra un dato cronologico incredibile, ma Turandot fu rappresentata per la prima volta al Real soltanto nel 1998; a vent’anni di distanza, nel programma di recupero dei titoli “storici” che hanno forgiato la storia dell’istituzione, è stata un’ottima scelta includerlo nel cartellone (con la bellezza di 18 recite e fino a tre interpreti per una medesima parte!). Il pubblico, infatti, assiste e reagisce con lo stupore di un fanciullo, abbandonandosi alla vicenda con ingenuità e nobiltà, per poi premiare calorosamente tutti gli artisti alla fine: il comportamento adeguato di fronte a una fiaba e al suo mistero. Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid