Torino, Teatro Regio, stagione d’opera 2018-2019
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave dal dramma La Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry MARIA GRAZIA SCHIAVO
Alfredo Germont DMYRTO POPOV
Giorgio Germont GIOVANNI MEONI
Flora Bervoix ELENA TRAVERSI
Annina ASHLEY MILANESE
Gastone LUCA CASALIN
Il barone Douphol PAOLO MARIA ORECCHIA
Il marchese D’Obigny DARIO GIORGELÈ
Il dottor Grenvil MATTIA DENTI
Giuseppe ALEJANDRO ESCOBAR
Un domestico di Flora MARCO SPORTELLI
Un commissionario GIUSEPPE CAPOFERRI
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Donato Renzetti
Maestro del Coro Andrea Secchi
Regia e luci Henning Brockhaus
Movimenti coreografici Valentina Escobar
Scene Josef Svoboda riprese da Benito Leonori
Costumi Giancarlo Colis
Allestimento Associazione Arena Sferisterio Macerata e Fondazione Pergolesi-Spontini di Jesi
Torino, 14 dicembre 2018 (prima rappresentazione)
Con La traviata prenatalizia, il Teatro Regio pare aver raggiunto l’obiettivo del sold out che si era prefissato scegliendo di rappresentare i grandi capolavori del repertorio più popolare. Il confronto con Il trovatore e L’elisir d’amore dei mesi scorsi, per i quali questo obiettivo era stato mancato – nonostante le opere risultassero assenti da più tempo dal palcoscenico torinese –, fa sorgere nell’osservatore una domanda cui per ora non si può dare risposta: il grande pubblico di Torino ha trovato qualche ragione peculiare per interessarsi alla produzione della Traviata? Oppure, al giorno d’oggi, le folle si muovono non più per trenta titoli celebri, bensì soltanto per cinque/dieci celeberrimi? Comunque sia, il teatro esaurito è una buona notizia, in particolare in un momento di crisi; ed è una buona notizia che il pubblico sia plaudente, con un calore insolito per una prima rappresentazione: magari sono spettatori che tornano, sedotti dalla magia del teatro d’opera, capace di affascinare gli ascoltatori quand’anche l’esecuzione musicale non vada oltre un livello di buona routine.
È il caso, in fin dei conti, della Traviata in questione, uno di quegli spettacoli “più da vedere che da sentire”, poiché la produzione dello Sferisterio di Macerata con regia di Henning Brockhaus, per quanto un po’ sacrificata rispetto al palcoscenico per il quale fu concepita, non denuncia gli anni trascorsi dalla sua creazione e assicura un bel colpo d’occhio grazie all’efficace gioco di specchi che la caratterizza. Il cambio di scena a sipario aperto tra i due quadri del II atto rivela, a chi ancora non se ne fosse reso conto, come funzionano le scenografie, e offre a tutti un saggio del “dietro le quinte” di ogni spettacolo teatrale. La recitazione è sempre efficace e curata. Dal punto di vista musicale, la recita è parsa un amalgama tra elementi non ben assortiti più che in sé stessi carenti. L’amalgama è spesso un fattore critico delle prime rappresentazioni, e solitamente migliora dopo una fase di rodaggio: assistere a una replica dello spettacolo col medesimo cast me ne ha dato conferma, ma della prima si sta ora parlando. La direzione di Donato Renzetti si è caratterizzata per una evidente pacatezza, basata su tempi di ampio respiro e sul costante rispetto del palcoscenico. Questa pacatezza cadrebbe a puntino in presenza di raffinati belcantisti, che avrebbero agio di valorizzare i dettagli della scrittura vocale verdiana dando vita a una lettura di Traviata che guardi al melodramma degli anni precedenti la sua composizione più che al futuro della storia dell’opera. Tuttavia, mancando in buona misura quel tipo di interpreti, l’esecuzione rischia di tramutarsi in una Traviata tradizionale (compresa la pratica di vari tagli “di tradizione” nelle riprese melodiche) un po’ smorta, nella quale si è perennemente toccati dalla sensazione che latiti quella brillantezza, sempre tesa tra piacere e tragedia, che sospinge inesorabile il corso degli eventi e dovrebbe travolgere personaggi e spettatori. L’interpretazione più pregevole è certamente stata quella del soprano Maria Grazia Schiavo (Violetta), che ha lasciato qualche perplessità nel I atto, dove è parsa dapprima poco svettante; poi, nell’aria, dolce ma poco emozionante, fino a che ha assunto una più spiccata personalità nelle incisive agilità della cabaletta. Tuttavia, ha brillato nei due atti seguenti, con le lunghe frasi legate, morbide ma sapientemente accentate di «Così alla misera» e «Dite alla giovine», l’intensità passionale di «Amami, Alfredo» e la delicatezza dell’assolo nel concertato del finale II, cui è seguito un «Addio del passato» integrale e ricco di sfumature. I due Germont, padre e figlio, dovrebbero essere, rispettivamente, un baritono e un tenore. I loro interpreti, tuttavia, davano l’impressione di collocarsi entrambi in una incerta fascia intermedia che penalizza il delineamento dei caratteri dei personaggi e soprattutto la definizione del loro contrasto nei brevi momenti di confronto. Giovanni Meoni (Giorgio) è un baritono di voce chiara, correttamente professionale ma di gamma cromatica piuttosto ristretta, che porta a casa una recita senza particolari note di merito né di demerito. Dmytro Popov è un Alfredo dall’emissione ingolata e opaca, cui riesce uno squillo nitido solo nel forte di alcuni passi solistici, come l’assertiva cabaletta «O mio rimorso!» o l’arietta «Ogni suo aver tal femmina»; non è, insomma, il tenore da sfumature che sarebbe richiesto dalla direzione di Renzetti. Il pubblico, in ogni caso, tutti applaude. Non ci si sofferma sulla fitta schiera di seconde parti che caratterizza quest’opera: alcune decisamente convincenti, pur nel piccolo spazio loro riservato, altre meno perspicue ma pur sempre corrette. Il Coro del Teatro Regio, nell’impegnativo finale II, conferma di aver ritrovato quella compattezza dei ranghi che nei primi mesi successivi al cambio di direzione sembrava lievemente incrinarsi. Per la fine dell’anno è previsto un altro “tutto esaurito” con le serate di danza affidate a Roberto Bolle.