Napoli, Teatro di San Carlo: “Kat’a Kabanova”

Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2018/19
KÁT’A KABANOVÁ”
Opera in tre atti su libretto di Leoš Janáček e Vincenc Cervinka, dal dramma Grosa (Il temporale) di Aleksandr Ostrovskij.
Musica di Leoš Jánaček
Katerina Kabanová BARBARA HAVEMAN
Tichon Ivanyč Kabanov LUDOVIT LUDHA
Marfa Kabanová GABRIELA BEŇAČKOVÁ
Boris Grigorjevič MAGNUS VIGILIUS
Savël Dikoj SERGEJ KOVNIR
Varvara LENA BELKINA
Vana Kudrjás PAOLO ANTOGNETTI
Kuligin DONATO DI GIOIA
Glasa SOFYA TUMANYAN
Feklusa FRANCESCA RUSSO ERMOLLI
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo di Napoli
Direttore Juraj Valčuha
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Willy Decker ripresa da Rebekka Stanzel
Scene e Costumi Wolfgang Gussmann
Luci Hans Toelstede riprese da Wolfgang Schünemann
Produzione Staatsoper Hamburg
Napoli, 16 dicembre 2018
Il secondo appuntamento della Stagione d’opera e danza 2018/19 del Teatro di San Carlo di Napoli è Kát’a Kabanová, opera in tre atti del compositore Leoš Jánaček, su libretto dello stesso Janáček e Vincenc Cervinka, dal dramma Grosa (Il temporale) di Aleksandr Ostrovskij. Una partitura complessa del 1921 che poggia soprattutto sul ritmo dei motivi musicali del linguaggio parlato, sulle avanguardie novecentesche delle corrispondenze fonetiche tra melodia e linguaggio parlato. Un capolavoro, costituito da una «prosa musicale», anche irrispettosa spesso della “quadratura ritmica”, ed un saldo costrutto operistico basato sulle cadenze della lingua parlata. Veramente ossessionato dal «ritmo dei motivi musicali del linguaggio parlato», Rappresentata per la prima volta al Teatro nazionale di Brno il 23 novembre 1921, approda sul palcoscenico del Massimo napoletano con Juraj Valčuha sul podio. Il Maestro conferisce all’opera una prassi interpretativa densa e ferventemente compatta, ponendo soprattutto cura ai vari motivi autoctoni, peraltro sapientemente mescolati nel tessuto orchestrale. Uno scorrere fluido, largo; una concertazione raramente languida ma scattante, caratterizzata da una costante intensità strumentale, mai volgare o scleroticamente trattata, ma conferendo coerenza sonora ai vari scatti fulminei e ai vari singhiozzi. Un indirizzo interpretativo rivolto ad esplorare i moti interiori della protagonista, indagine effettuata ed affettiva resa soprattutto scandagliando la tessitura dell’ouverture, rendendola inquieta, trepidante e, a tratti, fissa e martellante nell’ossessiva riaffermazione del motivo dei timpani. Un suono, quello dell’Orchestra del Teatro San Carlo, intriso d’intimismo melodico, argenteo, ora lamentoso, ora rancoroso. Dell’architettura della partitura emergono le rifrazioni d’una vaga luce e il rapido tremolio che evoca le acque del Volga, ove la donna perirà affogata. Frasi espanse, lampeggianti, spesso troncate con la roncola e gettate colla fionda tra le fauci spalancate dei personaggi: i temi musicali sono quasi sempre un’amplificazione strumentale delle parti cantate. Prassi interpretativa coerente con la regia curata da Willy Decker, ripresa da Rebekka Stanzel, con scene e costumi ideati Wolfgang Gussmann e luci curate da Hans Toelstede, riprese da Wolfgang Schünemann. La regia risulta un’indagine affettiva dell’inquietante tragedia vissuta da Kát’a, che strenuamente lotta contro la tirannica ed asfissiante repressione familiare e contro il soffocante cinismo del conformismo borghese. Una regia asciutta, ora intima ora quasi urlante che, senza una pretestuosità d’invenzione, rende tormentata e sofferta una trama alquanto sofferente, dal punto meramente contenutistico. Emerge l’indole pratica e cruda della regia soprattutto nella cura dei rapporti tra i cantanti, intabarrati in abiti cupi e dalle linee assai severe. Relazioni dispiegatesi, dunque, in una scatola legnosa, fredda ed asfissiante, trasposizione scenica della gabbia ove l’inconscio della donna è costretto a navigare, magari fantasticando l’agognata libertà, anche sessualmente morbosa. Un uccello, dunque, tratto in schiavitù tra pareti legnose della produzione della Staatsoper d’Amburgo, che, a tratti, s’aprono facendo trasparire un’argentea luce, attraversata da liberi uccelli ma fissi. E lo sguardo della donna si perde, potendolo gettare per poco oltre le soffocanti mura casalinghe, ma rannicchiatosi nuovamente nella galera immaginifica quando le pareti, serrandosi, impediscono d’intravedere l’orizzonte. Una regia, dunque, con un’impronta anche romantica. Sul palcoscenico napoletano, una notevole compagnia di canto. Il soprano Barbara Haveman (Kát’a Kabanová) recita in modo realistico e naturale, prova teatrale supportata da uno strumento vocale notevolmente padroneggiato, soprattutto nell’irregolarità metrica della «melodia parlata», con voce accesa nell’acuto ma che mostra fragilità nelle zone medio-basse. La cantante pone cura soprattutto nell’intensità teatrale del ruolo, riuscendo a cantare con una “perfida” nonchalance, con una emissione un po’ tesa ma comunque valbuona. Notevole l’interpretazione anche quella della veterena Gabriela Beňačková (Marfa Kabanová). Una voce aspra  “cattiva”, ora soffocata nel grave, ora aspramente squillante nell’acuto, nel parossismo isterico del ruolo della suocera tirannica e madre insanamente ossessiva e gelosa. Buona anche la prova del tenore Ludovit Ludha (Tichon Kabanov). La sua interpretazione è tratteggiata da un esasperato patetismo interpretativo. Dal canto suo, la prova dell’altro tenore, Magnus Vigilius (Boris) risulta languida ed alquanto sofferta, mai svenevole o patetica, con una voce solida ma anche pervasa da toni sottili e melanconici. Alla vocalità della protagonista si contrappone quella più “frivola” e “leggera”  di Lena Belkina (Varvara), con un canto sempre centrato e trasparente. Teatralmente e vocalmente corretti appaiono anche le parti minori interpretate da Sergej Kovnir (Savël Dikoj), Paolo Antognetti (Vana Kudrjás), Donato Di Gioia (Kuligin), Sofya Tumanyan (Glasa), Francesca Russo Ermolli (Feklusa). Notevole anche l’apporto del coro preparato da Gea Garatti Ansini. Successo pieno di pubblico, composto soprattutto da giovani, magari attratti dal titolo abbastanza desueto per le scene italiane. Foto Luciano Romano