Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2018-2019
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Soprano Maria Agresta
Mezzosoprano Veronica Simeoni
Tenore Antonio Poli
Basso Alex Esposito
Venezia, 4 novembre 2018
Ha preso il via con una solennità tutta particolare la nuova Stagione Sinfonica del Teatro La Fenice, una fondazione che giustamente intende svolgere una politica culturale che coniughi la più elevata qualità artistica a una funzione anche “civile” della propria attività. Così il concerto inaugurale, in cui si eseguiva la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, era dedicato al Centenario della fine della Grande Guerra, suggerendo un legame tra la musica del bussetano – figura-simbolo del Risorgimento e della Nuova Italia – e uno dei momenti più significativi della nostra storia nazionale. Del resto ad altre due importanti ricorrenze si lega la genesi stessa del Requiem: al primo anniversario della morte di Manzoni (22 maggio 1874), per la cui celebrazione esso fu concepito, ma anche al precedente primo anniversario della morte di Rossini (13 novembre 1869), in occasione del quale Verdi si era fatto promotore della composizione a più mani di una Messa – peraltro mai eseguita, se non in tempi recenti –, scrivendone lui stesso l’ultimo segmento, “Libera me”, che avrebbe poi collocato – seppur con qualche modifica – a conclusione della messa in memoria di Manzoni.
Per un evento di così grande portata ci si è affidati a Myung-Whun Chung, uno dei più apprezzati direttori del nostro tempo, nonché nome sempre più ricorrente nella programmazione del teatro veneziano, come attesta la previsione di numerose presenze del maestro sudcoreano sul podio della Fenice: a fine mese dirigerà il Macbeth, l’opera inaugurale della Stagione Lirica – dunque ancora Verdi! – e, più in là, il Concerto di Capodanno, la Seconda sinfonia di Mahler, la ripresa di Otello, la Quarta Sinfonia di Brahms. Scusate, se è poco!
Quanto al nostro Requiem, il quartetto vocale era composto da cantanti assolutamente sulla breccia nel panorama internazionale, che si sono affermati soprattutto nel repertorio operistico. Certamente per comprendere la grandezza di questo monumento sonoro non si può prescindere dalla sua continuità, per quanto riguarda i mezzi espressivi, rispetto al teatro musicale dello stesso autore: una drammaticità teatrale percorre indubbiamente questa musica, che è nel contempo pervasa da un’innegabile spiritualità, per quanto di natura profondamente umana. Si richiede, dunque, agli interpreti la padronanza della tecnica e degli stilemi interpretativi della tipica vocalità verdiana, purché la sua innata teatralità sia depurata da ogni eccesso, da qualsiasi trucco del mestiere. Senza nulla togliere all’ottima prestazione di tutti i cantanti, che si sono distinti per una solida professionalità e una coinvolgente resa espressiva, ci è sembrato che – chi più, chi meno – si siano talora lasciati andare a qualche vezzo – in forma di appoggiature o portamenti – che, se poco opportuno in un melodramma, risultava decisamente estraneo ad una composizione, nella quale dovrebbe sempre emergere l’afflato nobile, spirituale del canto, sebbene non sia stata concepita per una finalità strettamente liturgica.
Dal canto suo, Chung – che dirigeva a memoria, padroneggiando la partitura da capo a fondo – ha proposto una lettura approfondita, in cui, cominciando dalla magia del suono, è evidente la sua capacità – che è poi quella dei grandi direttori – di imprimere all’esecuzione una propria peculiare concezione interpretativa, giocando sulle sfumature, ma anche sui forti contrasti a livello sia dinamico che agogico. Così nel “Requiem aeternam” i tempi erano dilatati e le sonorità appena sussurrate, ad esprimere una dimensione di intimo raccoglimento, avulsa dalla comune percezione sensoriale, mentre nel “Dies irae” si scatenava un’estrema violenza sonora, a partire da una martellante, spaventosa pulsazione ritmica. Di estrema suggestione – per fare qualche altro esempio – l’ “Ingemisco”, al cui interno l’ “Inter oves” veniva reso con estrema dolcezza nell’accompagnamento orchestrale (complici l’oboe e l’estenuazione agogica), interrompendo il precedente tono di accesa emotività, espresso da chi non può celare il rossore per la propria colpa. Quasi parossistico il “Sanctus”, con la sua incontenibile, fervente lode alla gloria divina. Perfetta, nel suo rigore contrappuntistico, coniugato a una costernata perorazione, la fuga sul “Libera me, Domine”.
Ottima – come si è detto – la prestazione del quartetto vocale, pur con qualche accento un po’ troppo “melodrammatico”. Maria Agresta ha convinto per il buon controllo della voce, imponendosi, in modo particolare, nell’assolo “Libera me”, e nel successivo “Requiem aeternam”. Analogamente Veronica Simeoni si è fatta onore, ad esempio, nel “Liber scriptus” e – insieme al soprano – nel “Recordare Jesu pie”, dando prova di una vocalità morbidamente ambrata. Meritevole l’impegno di Antonio Poli, che ha cercato una varietà di moduli espressivi, per aderire al dettato verdiano, anche se la sua voce, piuttosto chiara, tendeva ad assottigliarsi nella zona acuta, segnalandosi in “Ingemisco” e “Hostias”, dove si è prodotto in apprezzabili mezze voci. Positivo anche l’apporto di Alex Esposito, che – in possesso di una vocalità non proprio profonda – è riuscito ad emozionare in “Mors stupebit” e “Confutatis maledictis”.
Che dire del Coro, che in questo grande affresco sonoro – paragonabile solo ad opere, quali il Giudizio universale di Michelangelo – ha un ruolo fondamentale? Ancora una volta questa formazione si è rivelata pienamente all’altezza, quanto a nitidezza e incisività del fraseggio, intonazione, coesione, perfetta conduzione delle parti (un “Bravo!” al maestro Moretti), imponendosi ovviamente nel ricorrente “Dies irae” come nel contrappuntistico “Libera me”. Successo caloroso, a tratti entusiastico.