“Il castello di Kenilworth” al Donizetti Opera di Bergamo

Bergamo, Teatro Sociale, Donizetti Opera 2018
“IL CASTELLO DI KENILWORTH”
Melodramma in tre atti di Andrea Leone Tottola
Musica Gaetano Donizetti
Elisabetta JESSICA PRATT
Amelia CARMELA REMIGIO
Leicester XABIER ANDUAGA
Warney STEFAN POP
Lambourne DARIO RUSSO
Fanny FEDERICA VITALI
Orchestra Donizetti Opera
Coro Donizetti Opera
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del Coro Fabio Tartari
Regia María Pilar Pérez Aspa
Scene Angelo Sala
Costumi Ursula Patzak
Luci Fiammetta Baldiserri
Nuovo allestimento e produzione della Fondazione Teatro Donizetti
Bergamo, 24 novembre 2018 – prima rappresentazione

Il castello di Kenilworth è la gemma del Donizetti Opera festival 2018: una nuova produzione non solo ottimamente eseguita e molto apprezzata dal pubblico, ma anche assai proficua sul piano storico-musicale, giacché ripropone la versione originaria del 1829 (revisione sull’autografo a cura di Giovanni Schiavotti), e non quella risultante dai cambiamenti che il compositore avrebbe apportato in seguito (riportata sulle scene a Bergamo nel 1989 e consegnata al disco). L’attuale esecuzione, concertata con accuratezza, equilibrio e aderenza allo stile donizettiano da parte del direttore Riccardo Frizza, rende piena giustizia alla bontà e qualità della partitura; nel passato furono in pochi a crederci, a cominciare dallo stesso Donizetti, che nelle sue lettere non esitò a esternare dubbi e scetticismo sull’opera. In realtà, si tratta del primo avvicinamento dell’autore a temi elisabettiani, tutt’altro che ingenuo, per di più attraverso la mediazione di un romanzo di Walter Scott, opportunamente ridotto a libretto in tre atti da Andrea Leone Tottola. La compagnia cantante contrappone dunque due soprani a due tenori (conforme alla prima del Teatro San Carlo di Napoli, 6 luglio 1829; l’antagonista Warney, secondo tenore, si sarebbe poi trasformato in baritono), e questo permette tutt’una serie di combinazioni vocali, duetti e numeri più complessi in cui il confronto dei timbri e dei caratteri contribuisce sensibilmente all’effetto drammatico. Xabier Anduaga, nel ruolo del Conte di Leicester, è un tenore dal timbro chiaro e dall’emissione vellutata; grazie agli armonici naturali e all’impegno nel fraseggio, la sua linea di canto riesce particolarmente pregevole, anche nel registro acuto; il suo maggior impegno consiste forse nel mantenere una perfetta intonazione, specialmente quando è costretto a forzare un poco l’emissione per coprire adeguatamente le puntature (stiamo parlando di una parte scritta per Giovanni David). Sul piano stilistico, Anduaga non occulta la ricerca della raffinatezza e del porgere prezioso, perfino dell’emissione flebile nel duetto del III atto con Elisabetta, quello dello sconforto e della disperazione (ma perché, negli accenti e nell’inflessione, si abbandona a imitare Juan Diego Flórez, quando potrebbe maturare facilmente uno stile suo personale?). Stefan Pop vanta un registro di baritenore, perfetto per sostenere il ruolo di Warney, e riesce a conferire piena plausibilità a un personaggio molto ambiguo, contraddittorio, quasi schizofrenico nell’agire, per come risulta dal libretto. La nobile parte di Elisabetta è sostenuta da Jessica Pratt con esito memorabile: la voce si proietta ferma e solidissima, disinvolta anche nei passaggi più impegnativi, nel corso di una prova che cresce di difficoltà fino alla funambolica cabaletta del finale III. La Pratt dimostra di aver studiato a fondo il suo personaggio e di saperlo rappresentare con finezza; i molti sospiri e il tono larmoyant del III atto, per esempio, sottolineano che Elisabetta perdona tutti gli inganni non per sublime e distaccata magnanimità, ma continuando a soffrire per la rinuncia all’amore di Leicester. Uno dei momenti musicalmente più riusciti ed emozionanti è il concertato del finale II, allorché la Pratt e Anduaga attaccano la loro parte in piano e proseguono a mezza voce, in una struttura di ascendenza rossiniana gestita magistralmente dal direttore e conclusa con un portentoso mi naturale sovracuto della stessa Pratt. Carmela Remigio è un’Amelia molto interessante e originale sul piano interpretativo: non ha nulla di remissivo o di ingenuo, come si potrebbe concludere dalla lettura del libretto; al contrario, si presenta come una sorta di Stuarda imprigionata nel castello e alla mercé di uomini vigliacchi o prevaricatori. Il timbro elegiaco del soprano riesce perfetto nel duetto con Elisabetta del II atto e ancor più nella grande aria del III, accompagnata dall’arpa e dall’armonica a bicchieri («Par che mi dica ancora», dalla scrittura più complicata rispetto all’analoga pagina di Lucia di Lammermoor). La Remigio, sia vocalmente sia nella recitazione, si mantiene sempre coerente al tipo di personaggio profilato dall’inizio, per esempio senza cadere nell’errore di trasformare Amelia in un’alienata mentale, anticipatrice di Lucia. Molto buona anche la prova del basso Dario Russo (Lambourne) e del soprano Federica Vitali (Fanny). Si disimpegna bene anche il Coro Donizetti Opera, diretto da Fabio Tartari, nonostante qualche piccolo e momentaneo disorientamento. Il grande merito della regista María Pilar Pérez Aspa è di porre al centro dello spettacolo le due coppie di personaggi e le loro complicate relazioni, senza aggiungere alcuna sovrastruttura scenografica o narrativa: la monumentalità del castello di Kenilworth, evocata nel pomposo titolo, è del tutto assente, ma questo permette che lo spettatore si concentri sugli effetti musicali, che bastano da soli a esprimere e la magnificenza dell’ambientazione e l’idolatria di cui la regina d’Inghilterra è circondata (cori, fanfare, elogi e momenti ufficiali abbondano nel corso dell’opera). Il piano leggermente inclinato su cui i personaggi soffrono e si disperano si arricchisce di una gabbia di prigionia prima per la sola Amelia, poi – nel finale – anche per tutti gli altri, in base al contrasto e alla difficile dialettica tra amore e potere politico che serpeggia in ogni componente del quartetto. Alla stilizzazione delle scene si contrappone la ricchezza sontuosa dei costumi di Ursula Patzak, dal disegno accuratissimo e dal gusto molto “siglo de oro”. Nel complesso, la ripresa bergamasca insegna che, con un gruppo di artisti tanto validi e attenti ai valori espressivi e formali, ogni partitura donizettiana sia meritevole di studio e recupero, anche la più negletta o a torto considerata “occasionale”; d’altra parte, Il castello di Kenilworth costituisce il primo episodio di una serie che si svilupperà poco dopo con Anna Bolena (1830), a seguire Maria Stuarda (1835) e Roberto Devereux (1838), una trilogia di approdi trionfali dalla rotta articolata e laboriosa.   Foto Fondazione Teatro Donizetti