Bergamo, Teatro Sociale, Donizetti Opera 2018
“ENRICO DI BORGOGNA”
Melodramma per musica in due atti di Bartolomeo Merelli
Musica Gaetano Donizetti
Enrico ANNA BONITATIBUS
Pietro FRANCESCO CASTORO
Elisa SONIA GANASSI
Guido LEVY SEKGAPANE
Gilberto LUCA TITTOTO
Brunone LORENZO BARBIERI
Nicola MATTEO MEZZARO
Geltrude FEDERICA VITALI
Academia Montis Regalis
Coro Donizetti Opera
Direttore Alessandro De Marchi
Maestro del Coro Fabio Tartari
Regia Silvia Paoli
Scene Andrea Belli
Costumi Valeria Donata Bettella
Luci Fiammetta Baldiserri
Nuovo allestimento e produzione della Fondazione Teatro Donizetti in coproduzione con la Fondazione Teatro La Fenice di Venezia
Bergamo, 25 novembre 2018
Mentre si dipanano le frasi della sinfonia come un’ironica eco di quelle rossiniane di Barbiere di Siviglia e Cenerentola, un gruppo di artisti e attori, dietro le quinte del veneziano Teatro di San Luca, si affanna negli ultimi preparativi della rappresentazione dell’opera: è tempo di andare in scena, ma il maestro ripetitore si accorge che manca l’interprete principale; e allora si coopta sull’istante una donna delle pulizie perché si cali senz’altro nelle vesti del giovane e prode Enrico di Borgogna e la recita possa incominciare. Silvia Paoli è l’artefice di uno spettacolo coloratissimo, vivace e divertente, che funziona a meraviglia nel recuperare – esattamente dopo duecento anni, per proseguire il “Progetto bicentenario” della Fondazione Teatro Donizetti – quell’Enrico di Borgogna, primo melodramma dell’autore a essere rappresentato a teatro (effettivamente al Vendramin San Luca, il 14 novembre 1818). Le forme musicali, come è facile immaginare, non sono quelle del Donizetti più usuale, ma sarebbe ingeneroso parlare di acerbità o di poca originalità della scrittura; al contrario, il ventunenne compositore non solo sa muoversi con disinvoltura nel genere cui avrebbe votato tutta la carriera, ma si permette anche di richiamarne garbatamente le più clamorose novità: la cavatina di Enrico, complici le movenze del libretto di Merelli (di lì a qualche decade patrocinatore del giovane Verdi), risuona come educata parodia della cabaletta «Di tanti palpiti», dal Tancredi; per contro, l’attacco del cantabile «Mi scendi all’anima / voce d’amore» dello stesso numero ha la stessa intonazione della stupenda frase «Al dolce guidami» dell’Anna Bolena, di dodici anni successiva. Dell’atmosfera “rossiniana”, intesa nell’accezione più giocosa del termine (e trionfante per esempio nel finale I o nell’aria di Gilberto del II atto, «È la donna un gran volume / che stracciato ha il frontispizio», che fa il verso alla Calunnia), si avvalgono cantanti e regista per confezionare uno spettacolo stilisticamente coerente, godibile e al tempo stesso rispettoso della musica. Il pubblico di Donizetti Opera 2018 risponde con grande entusiasmo e condivide la gioia della riscoperta.
Alessandro De Marchi dirige la Academia Montis Regalis e valorizza tutti gli aspetti della giovanile partitura: accenti e sonorità rossiniane, sprezzature mordaci nell’orchestrazione e nei ritmi, insomma il senso del comico insito nella musica stessa. È una vera gioia poter riascoltare Anna Bonitatibus, mezzosoprano dalla carriera internazionale e dal repertorio notevole, in un teatro italiano come il Sociale di Bergamo, nel cui spazio la voce si proietta con ottima resa: il timbro caldo, il vibrato stretto tenuto sotto controllo, l’ampiezza dei fiati e la capacità di alleggerire l’emissione costituiscono gli elementi distintivi di una linea di canto eccellente, dalla sortita fino all’impervia cabaletta conclusiva del ruolo en travesti di Enrico, «Ah compensa questo istante / del destin la crudeltà». Al primo tenore è affidata la parte antagonistica del tiranno Guido: Levy Sekgapane, che la scorsa estate si era disimpegnato bene a Pesaro in Adina, rivela ora qualche debolezza, a causa di una voce esile, poco sostenuta e povera di armonici; l’emissione è abbastanza precisa nelle agilità, ma la dizione e il fraseggio sono messi a disagio nei recitativi e nei passaggi che richiedono più espressività. Il cantante, comunque, non si perde d’animo, anzi migliora sensibilmente con il procedere della recita, in particolare nel II atto. Sonia Ganassi si giova di tutta la sua intelligenza attoriale e vocale per offrire un’interpretazione di Elisa molto originale: giacché la strumentazione che ne introduce la parte è ironica, anche grottesca, il mezzosoprano insiste sull’emissione caricata e patetica per collegare efficacemente – a seconda dell’esigenza espressiva – le parti del suo registro. Francesco Castoro è il secondo tenore, impegnato nel ruolo di Pietro, padre putativo di Enrico: voce piccola ma di impostazione corretta e adeguata alla scrittura musicale. Molto apprezzato Luca Tittoto nella parte di Gilberto, il basso buffo che concentra gli interventi esplicitamente comici dell’azione. Enfatica, in linea con le richieste registiche, la Geltrude di Federica Vitali; molto buoni Lorenzo Barbieri e Matteo Mezzaro, nelle parti minori rispettivamente di Brunone e Nicola, così come il vivacissimo Coro Donizetti Opera, preparato da Fabio Tartari.
Al pari della scena (il palcoscenico ruotante del Teatro di San Luca, ora rivolto al pubblico dalla parte del boccascena ora dal “dietro le quinte”) giocano un ruolo fondamentale gli sgargianti costumi di Valeria Donata Bettella: degni dei personaggi di una fiaba a lieto fine, essi accrescono l’empatia e l’incanto dello spettacolo. Di quando in quando un figurante mascherato da orso fa capolino sulla scena, per partecipare alla gazzarra o per spaventare qualcuno; per lo più il direttore di scena si affretta a toglierlo di mezzo … è l’elemento fuori luogo, che non c’entra nulla con l’azione e l’ambientazione, ma che contribuisce all’effetto metateatrale. In realtà, la regia intende suggerire che un messaggio politico risorgimentale forse alligna già all’altezza cronologica dell’Enrico di Borgogna, visto che il coro prepara un attentato dinamitardo ed eleva scritte antiasburgiche, il tutto sventato dall’occhiuto e zelante maestro ripetitore. La trovata conclusiva, tuttavia, alla festa generale e scomposta preferisce un velo di malinconia, perché mentre Enrico è impegnato nella ripetizione della cabaletta, attorno a lui c’è gran fretta di smobilitare: gli inservienti smantellano le scene e spengono le luci; tutti i personaggi se ne vanno, si è fatto decisamente tardi, Enrico ha sconfitto il nemico e recuperato il trono di Borgogna, ma forse proprio per questo adesso è completamente solo. Il coro, invisibile, scandisce la vittoria senza dimenticare i travagli dell’esistenza: «Talor per nebbia impura / la fronte al sol s’oscura; / ma di più luce adorna, / ritorna a scintillar». Foto Fondazione Teatro Donizetti