Como, Teatro Sociale, Stagione d’Opera 2018-2019
“LA VOIX HUMAINE”
Tragédie lyrique in un atto, su libretto di Jean Coceau, dal suo omonimo dramma.
Musica di Francis Poulenc
Elle ANNA CATERINA ANTONACCI
“CAVALLERIA RUSTICANA”
Melodramma in un atto, su libretto di Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci, dalla omonima novella di Giovanni Verga.
Musica di Pietro Mascagni
Santuzza TERESA ROMANO
Turiddu ANGELO VILLARI
Alfio MANSOO KIM
Mamma Lucia GIOVANNA LANZA
Lola FRANCESCA DI SAURO
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Coro OperaLombardia
Direttore Francesco Cilluffo
Maestro del Coro Diego Maccagnola
Regia Emma Dante
Scene Carmine Maringola
Costumi Vanessa Sannino
Luci Cristian Zucaro
Coreografie Manuela Lo Sicco
Allestimento Fondazione Teatro Comunale di Bologna in coproduzione con Teatri di OperaLombardia e Fondazione Haydn di Bolzano.
Como, 23 novembre 2018
La strana coppia “Poulenc e Mascagni”, ovverosia il più tradizionale dei compositori italiani di inizio Novecento accostato al morigerato sperimentatore francese di settant’anni or sono, sorprendentemente funziona: prima lo straniante allucinato monologo francese de “La voix humaine”, poi l’altrettanto allucinato, ma grondante passione, atto unico verghiano (“Cavalleria Rusticana”), si incastrano bene, impattando sullo spettatore e poi amorevolmente scavando nelle sue ferite. Buona dunque la scelta fatta dal Sociale di Como, che su questo dittico punta molto, sia in termini creativi, sia musicali: la regia infatti è affidata alla più celebrata (e contestata) regista teatrale dei nostri giorni, la sicilianissima Emma Dante, mentre il ruolo più impegnativo, la femme désespérée de “La voix humaine”, è assegnato ad una delle migliori soprano italiane, Anna Caterina Antonacci, navigatissima interprete del ruolo. Partiamo subito da lei, diva conclamata ed acclamata della soirée: certamente non delude, anzi esalta gli animi del pubblico un fraseggio tanto curato, del tutto al servizio dell’espressività, dell’interpretazione. Le ben note qualità timbriche la naturale nobilità della linea di canto si uniscono alla gigantesca personalità che l’interprete sprigiona – personalità, peraltro, ottimamente contenuta dall’allestimento borghese e minimale, dai riferimenti cinematografici mélo, à la Douglas Sirk (per non dire in stile “telefoni bianchi”). Musica, recitazione, e ambiente (ben costruito da Carmine Maringola e benissimo fotografato da Cristian Zucaro) divengono davvero una cosa sola, per il piacere dello spettatore, anche del più esperto: non siamo di fronte alla “solita“ Emma Dante, eppure le cifre stilistiche della regista ci sono – l’universo femminile, la passione tipizzata, la surrealtà del sogno lucido. Ci trae in inganno, probabilmente, l’ambientazione quasi asettica, che però viene del tutto infiammata dalla magnificenza della musica di Poulenc e dal già citato carattere della Antonacci. Riconosciamo invece un’Emma Dante più tipica nella Sicilia rétro di “Cavalleria rusticana“: grazie al solito larghissimo ricorso a bravi figuranti e danzatori (che danno ottima prova di sé, per merito anche della direzione di Manuela Lo Sicco), incontriamo viae crucis, Marie della vita, citazioni artistico-cinematografiche a go-go (da Pontormo a Pietro Germi). Siamo in pieno neorealismo, in atmosfera di fuitine, codici d’onore, religioni basate su ataviche colpe. Teresa Romano, nella parte di Santuzza, regala un’interpretazione complessivamente valida, accurata sul piano meramente vocale, forse un po’ impersonale nel fraseggio; Angelo Villari è un Turiddu disinvolto e vibrante. La voce brillante e intensa è quanto mai adatta al repertorio verista. L’Alfio di Mansoo Kim appare ben gestito, anche se la voce mostra delle disuguaglianze di emissione, nella sua celebre pagina d’entrata (“Il cavallo scalpita”) si mostra però sciolto e abbastanza ben centrato. Convincenti anche le interpretazioni della ventiquattrenne mezzosoprano napoletana Francesca di Sauro (una Lola fresca e dal fraseggio giustamente maliardo) e di Giovanna Lanza, che, nella parte di mamma Lucia, diventa la vera protagonista della messa in scena: grazie al suo bel timbro vocale, conferisce autorevolezza e maternità a una parte tanto dolente. Lodi senza se e senza ma anche per il Coro (diretto dal maestro Diego Maccagnola), che strappa brividi nella scena della preghiera. La concertazione del Maestro Francesco Cilluffo si è espressa al suo meglio senza dubbio nella seconda opera (fusione scena-buca praticamente perfetta e grande risalto alle sfumature della partitura, dando particolare rilevanza a quelle più struggenti, come il celebre intermezzo sinfonico, che Francis Ford Coppola ha fatto conoscere al grande pubblico nel “Padrino – Parte III”), mentre nel dirigere Poulenc ci è sembrato un po’ meno controllata. Proprio in base alla propensione sentimentale di Cilluffo, ci si sarebbe aspettata una conduzione più “all’italiana”, coloristicamente più varia e appassionata. Foto Alessia Santambrogio