Napoli, Teatro di San Carlo, stagione d’opera 2017-2018
“NABUCCO”
Dramma lirico in quattro parti, Libretto di Temistocle Solera dal balletto di Antonio Cortesi Nabuccodonosor e dal dramma di Auguste Anicet-Bourgeois, Nabuchodonosor.
Musica di Giuseppe Verdi
Nabucodonosor GIOVANNI MEONI
Ismaele ANTONELLO PALOMBI
Zaccaria RAFAL SIWEK
Abigaille SUSANNA BRANCHINI
Fenena ROSSANA RINALDI
Il gran sacerdote di Belo GIANLUCA BREDA
Abdallo ANTONELLO CERON
Anna FULVIA MASTROBUONO
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo di Napoli
Direttore Francesco Ivan Ciampa
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia e scene Jean-Paul Scarpitta
Costumi Maurizio Millenotti
Luci Urs Schönebaum
Napoli, 14 ottobre 2018
Francesco Ivan Ciampa ha realizzato una corretta esecuzione della sinfonia, addomesticando i temi a ritmi spezzati che la compongono, ovvero: l’elemento del finale dell’atto primo, tema dell’anatema («Dalle genti sii reietto»), l’elemento della scena quarta dell’atto secondo («Il maledetto non ha fratelli…») e l’elemento della scena seconda dell’atto secondo («Noi già sparso abbiamo fama…»). Sono ritmi staccati e sillabati, costituiti da accenti scanditi, ma sommessamente e fortemente ammaestrati. Ovviamente, come scrisse Bruno Barilli, «estirpare i primi [i difetti, o ciò che per difetto viene erroneamente percepito] vuol dire distruggere anche le seconde [le qualità].». Ma, nel nostro caso, s’è trattato soprattutto d’una scelta stilistica. Profonde sono rivelatesi le frasi larghe ed ampie del tema proveniente dal coro degli Ebrei. L’orchestra del San Carlo sempre degna d’encomio, pervasa da un dinamismo folgorante e dalla lucentezza dei suoi vari settori, che colloquiavano felicemente tra loro. Incalzante s’è rivelato l’Andante del terzetto «Io t’amava!…»; a tratti l’accompagnamento emergeva nudo e possente, per poi affievolirsi ed attenuarsi nuovamente, quasi a sostegno dei novelli versi che dolcemente e gradualmente Abigaille pronunziava. Ritmicamente fremente s’è rivelata anche la cabaletta del profeta Zaccaria, «Del futuro nel bujo discerno…», acciaccando ed appiattendo però i cupi lamenti e i tristi singulti dell’oboe e i foschi gemiti dei violoncelli. Comunque, prassi esecutiva accettabile perché fatto puramente stilistico. Unico traviamento della cosidetta “tradizione” è l’acuto, mai scritto dal Maestro, appiccicato alla fine della cabaletta «Salgo già del trono aurato». Sono state poi apportate leggere variazioni nel daccapo della cabaletta «Come notte a sol fulgente» e nel daccapo della sopracitata cabaletta del soprano. Impercettibili modificazioni comunque tollerabili, tipiche della Scuola italiana. Di notevole impatto Susanna Branchini, nei panni d’Abigaille. Voce ferma, ben controllata, poderosa e possente, soprattutto nel nervoso recitativo dell’Atto secondo, nello sconcertante salto di due ottave, dal do acuto al do centrale. Voce penetrante, brillante ma anche morbida; fraseggio tecnicamente melodioso e ben governato. Voce ben alleggerita soprattutto nella cavatina «Anch’io dischiuso un giorno», con una corretta cura della flessuosa linea vocale. Altrettanto si può dire dell’interpretazione del baritono Giovanni Meoni, nei panni del re Nabucodonosor. Voce ampia, rotondeggiante; timbro ora cupo e veemente, ora languido e compassionevole, sempre dominato da un’accurata tecnica del canto e da un fraseggio sapientemente ammaestrato ed accortamente gestito. Presenza scenica non ingombrante, forse perché surclassata da quella del soprano, vero mostro del palcoscenico. Il baritono, tuttavia, s’è rivelato estremamente convincente e vincente soprattutto nella scena nona dell’Atto secondo «Chi mi toglie il regio scettro?…». Anche Rossana Rinaldi, nei panni di Fenena, sfodera una bella voce. Colore caldo, delicato; fraseggio sensibile forti accenti melanconici soprattutto nella preghiera «Oh dischiuso è il firmamento!». Diversamente, appare piuttosto debole il tenore Antonello Palombi. Il timbro è bello e pastoso, non così la linea di canto piuttosto forzata e fraseggio assai generico. Notevolissimo, Rafal Siwek, basso nei panni del profeta Zaccaria. Voce profonda e omogena, un timbro degno d’un profeta che esorta il suo popolo a porre fiducia in Dio. Linea di canto robusta, nella cavatina «D’Egitto là sui lidi», rivelandosi dunque dolce e rassicurante; tremenda ed estremamente espressiva, invece, nella cabaletta «Del futuro nel bujo discerno…», ponendo gran cura soprattutto nelle fumose scale cromatiche. D’impatto emotivo s’è rivelata la sua ammonizione finale rivolta a Nabucodonosor «Servendo a Jeovha \ sarai de’ regi il Re.», che piomba come pietra tombale sul cadavere della schiava da poco spirata nell’indifferenza generale. Valido l’apporto del resto del cast: Gianluca Breda (Gran sacerdote di Belo), Antonello Ceron (Abdallo), Fulvia Mastrobuono (Anna). Intima e degna d’encomio la regia di Jean Paul Scarpitta che, della messinscena, ha curato anche le scene (con l’importante apporto visivo dei costumi di Maurizio Millanotte e delle luci di Urs Schönebaum). Non credo vi sia cosa più toccante d’un popolo oppresso e piangente, tratto in schiavitù da un tiranno, che lagrima per la patria “sì bella e perduta”, toccati da un debole chiarore d’una luna che, quasi impietosita, cela, dietro grossi nubi nere, il suo viso “lieto e pieno”. Ebrei sofferenti che, intabarrati in larghe e bianche tuniche, coi capi coperti da pesanti veli, sembravano cantare la sofferenza dell’intera umanità. Il regista, come fece nel 2011 al Teatro dell’Opera di Roma, ha operato una corretta ed onesta trasposizione scenica della vera essenza della drammaturgia del Maestro: Verdi non è solo riverberi cupi e rossi, poesia selvaggia e veemenza primitiva, ma è silenzio, oscurità, mistero. E, quei pannelli cupi, quei teloni foschi e soffocanti sembravano un autentico ritratto della vera sostanza del dramma, lontani dai fronzoli e dai vari pervertimenti teatrali che abbruttiscono sempre più i drammi del Maestro. Tuttavia, è completamente assente la forza soprannaturale; ovvero: la folgore che s’abbatte sul capo canuto dell’audace tiranno e «l’idolo [che] cade infranto da sé». L’assenza del primo elemento sovrannaturale sarebbe tuttavia accettabile; l’assenza del secondo, no: perché l’idolo che si frantuma da sé produce una reazione: tutti, presi da sgomento, cantano “Divin prodigio!”, verso dunque che perde di significato se viene a mancare l’azione scenica che provoca turbamento negli astanti. Per l’assenza della folgore che s’abbatte sul capo del re, è diverso: poiché lì ci pensa la musica a riprodurre la sensazione dello scoppio del fulmine, con una folgorante esplosione sonora seguita da un effetto temporalesco ritmicamente discendente che sta andando placandosi. Il coro, preparato da Gea Garatti Ansini, emozionante ed estremamente espressivo. Il celebre coro del «Va’, pensiero», viene cantato in modo sommesso e sofferto, pena fattasi cupa e languida soprattutto nel crescendo dell’inizio del verso più suggestivo «Oh mia patria sì bella e perduta». Dunque, una bella messinscenae, pervasa e caratterizzata da un cupo dolore, vera essenza del dramma. Foto Luciano Romano