Dramma lirico in quattro parti, libretto di Salvatore Cammarano. Marco Caria (Il Conte di Luna), Anna Pirozzi (Leonora), Enkelejda Shkosa (Azucena), Piero Pretti (Manrico), Alessandro Spina (Ferrando), Rosanna Lo Greco (Ines), Augusto Celsi (Ruiz), Alessandro Pucci (Un messaggiero). Fondazione Orchestra Regionale delle Marche, Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini”, Complesso di palcoscenico “Salvadei”. Daniel Oren (direttore), Carlo Morganti (Maestro del Coro), Francisco Negrin (regia), Louis Désiré (scene e costumi). Registrazione: Macerata, Arena Sferisterio Luglio/Agosto 2016. T.Time: 138′. 1 DVD Dynamic 37769
Daniel Oren non si smentisce: come al solito, ha preferito gettare alle ortiche il segno scritto, quello verdiano, per abboccare il capo nelle fosche modificazioni musicali. Ha avuto l’ardire di porre le mani nella partitura, d’affilare una matita rossa e, sulle intoccabili note scritte dalla mano sapiente del Maestro, d’infliggere modificazioni ed insensati tagli. Si dirà: “S’è sempre fatto!”, vero. Ma significa nulla: è un abuso, un vano malcostume che dovremmo sradicare dal mestiere melodrammatico. Vero è che s’abbruttiscono le partiture tagliuzzandole, e magari appiccicando un acuto alla fine della cabaletta, non solo per infuocare le masse, ma anche per assecondare le esigenze e le soffocanti limitazioni dei cantanti. Inoltre, se avessimo la possibilità d’intervistare Verdi, chiedendogli dei tagli alle sue partiture, Egli sicuramente ripeterebbe ciò che scrisse a Giulio Ricordi in una lettera del 1871: «E’ la strada che condusse al barocco e al falso l’arte musicale alla fine del secolo passato e nei primi anni di questo, quando i cantanti si permettevano di creare le loro parti, e farvi in conseguenza ogni sorta di pasticci e controsensi. No! Io voglio un solo creatore, e m’accontento che si eseguisca semplicemente ed esattamente quello che è scritto. Leggo sovente nei giornali d’effetti non immaginati dall’Autore; ma io, per parte mia, non li ho mai, trovati. Io non ammetto né ai cantanti né ai direttori la facoltà di creare!». Ecco: “la facoltà di creare!”, cosa di cui si stanno impossessando i registi, talora investiti da una “divinazione” eccessiva; sempre più direttori dei direttori d’orchestra. Il direttore, dal canto suo, cessa d’essere tale per fare il sarto: tagliuzzando, accomodando e ricucendo arie e cabalette, per riadattarle alla snella silhouette vocale dei cantanti. Tuttavia, la restituzione della partitura operata da Oren risulta discreta. E si badi al termine restituzione, completamente diverso da creazione. Tanto più che si restituisce qualcosa che qualcuno ha già provveduto a creare, ad inventare. Ha appesantito riverberi già cupi e rossi, imbestialendo la prorompente “foga folgorante e irreparabile”, come il Barilli definì la piena espressione della poesia romanzesca del Trovatore; magari trascurando quest’ultimo elemento facendo solo leva sulla poesia “selvaggia” dell’aura riverberante del soggetto spagnolo, per citare Massimo Mila. Inoltre, l’esasperazione paesana, quasi rustica, degli accompagnamenti costituisce la gibbosità della messinscena. Poco curata, e trattata come espediente narrativo marginale, è apparsa l’Introduzione. Eppure Verdi ci teneva molto, tanto più che si preoccupò d’incaricare l’impresario di scritturare «un basso un po’ baritonale». Questa è una situazione scenica ingegnosa e meditata del Teatro del Maestro, e non un’oziosa e consueta sequela d’antefatti narrativi. Il basso Alessandro Spina s’è mostrato davvero debole, riuscendo a malamente a restituire un fosco colore generale, con mediocre espressività. Inoltre tale scena è stata contaminata da un’oziosa sequela d’inutili divertimenti e pervertimenti teatrali inventati dal regista Francisco Negrin; contaminazione che ha interessato anche altre scene. Il Maestro ha facilitato la vita ai registi, partorendo una drammaturgia costituita da una musica che già contiene la regia, e i registi se la complicano, magari trasformando Ferrando in un babysitter e i familiari del Conte in una mandria di “zombie”. Una regia sofferente, fintamente rivoluzionaria o visionaria, sotto cui si cela solo tanta brama d’apparire. La Parte prima s’apre con la zingara che, disperata, assiste ad un duello fatto con delle falci che, cozzando, producono rumori che recano fastidio. Su una piattaforma, si dimena una megera – probabilmente la fattucchiera, madre della gitana -, mentre Ferrando canta attorniato da fanciulli che a stento trattengono le risate. Una regia che distrae, fuorviante. L’attenzione si perde tutta nel seguire questi pervertimenti teatrali che accompagnano quasi tutte le scene, col risultato che si riesce a comprendere praticamente nulla. Davvero brutta la restituzione della Scena prima della Parte seconda: la banda dei gitani, che avrebbe dovuto dar “di piglio ai loro ferri di mestiere”, invece siedono attorno ad un tavolo agitando le braccia spasmodicamente, e si fa poi allato un ragazzetto ustionato, continuamente presente. Il regista opera una oziosa trasposizione scenica dei racconti che costituiscono questo dramma. Cosa inutile. E, cosa ancora più surreale, non si capisce perché Manrico canti Compagni, avanza il giorno, parte che avrebbe dovuto cantare un vecchio zingaro. Anche i cori Or co’ dadi, ma fra poco e Squilli, echeggi la tromba guerriera sono accompagnati da altre scene inventate che coinvolgono i protagonisti del dramma. Una regia confusionaria e fortemente fuorviante che funziona male, malissimo. Convincente la voce del baritono Marco Caria. Voce marcata, ponderata, a tratti però sforzata. Un’interpretazione sgombra da quel ghigno mefistofelico che abbruttisce tutti i Conte, ricreato magari abbandonando o trascurando l’essenza del personaggio: essenzialmente, quella d’un uomo innamorato. Ottima Anna Pirozzi, che ha spazzato via l’immagine comune, assolutamente falsa, d’un Verdi rozzo, con la cravatta allentata ed un cappellaccio a falde larghe, che corre, sguainando bonariamente e con sciatteria la spada del trovatore, nei giardini della sua tenuta a Sant’Agata. E sto parlando del Verdi compositore, non del Verdi agricoltore. La fierezza d’un canto sradicato dal luogo comune d’un’inspirazione meravigliosamente cattiva. Per anni, i veri amatori del Maestro sono stati apostrofati come persecutori d’un gusto truculento: tutto falso. Tanto più che la fantomatica rozzezza espressiva diviene tale se i cantanti sono pessimi e se ci s’abbandona all’esasperazione folkloristica dell’accompagnamento, perno fondamentale del melodramma. Il soprano s’impadronisce della scena e, con voce affettuosa, si fa ammirare. Fraseggio chiaro; voce cristallina, convincente. Alla sua dote naturale, s’allega un’onesta cura della tecnica del canto. Ovviamente, i tagli hanno penalizzato la fluida spontaneità della voce, come nella cabaletta Di tale amor, che dirsi, che sarebbe stato bello ascoltare per intero. Il daccapo lo hanno tagliato, compensato però da un acuto esagerato. La voce una è: o daccapo con acuto breve o solo acuto roboante scatena-masse.Bene il mezzosoprano Enkelejda Shkosa. Voce ferma, penetrante; onesta restituzione della sinistra esistenza della gitana, della drammaticità violenza e nervosa, del pessimismo fosco e cupo. Una corretta riproduzione del racconto della zingara, costellato da una gonfia fierezza che, a tratti, viene sopraffatta da una stanca umanità, quella d’una madre sconvolta. Bene anche il tenore Piero Pretti, che ha operato una restituzione della presunta “espressione della rozzezza artistica di Verdi”, come la definì Hanslick. Non credo che ciò sia un vanto, ma non potrebbe essere altrimenti dopo la creazione d’una cabaletta “nuova”. Il taglio del daccapo di Di quella pira e il do di petto mai scritto dal Maestro – ma aggiunto dal tenore Tamberlick – costituiscono un abuso che produce pure un errore teatrale, dal momento che, come già precisato prima, musica e regia coincidono sempre in Verdi. La voce del tenore si sposa perfettamente con la creata violenza delle situazioni sceniche, soprattutto quando, con zingaresca passione, s’abbandona alla ferocia e ad un facinoroso temperamento. Non so se ciò sia un bene o un male. L’orchestra è degna d’encomio: intensamente espressiva, pervasa da un folgorante dinamismo, da una vera schiettezza emotiva ed espressiva. Il coro, anch’esso degno ed onesto, soprattutto nello struggente lamento del Miserere, sommesso e commovente.Dunque, messinscena accettabile, senz’altro, ma che potremmo definire come d’ordinaria amministrazione per i vari tagli e per l’oziosa ricreazione d’una regia sofferente.