Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Trilogia Popolare Settembre 2018
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal romanzo “La dame aux camélias” di Alexandre Dumas.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry ZUZANA MARKOVÁ
Flora Bervoix ANA VICTÓRIA PITTS
Annina MARTA PLUDA
Alfredo Germont MATTEO LIPPI
Giorgio Germont GIUSEPPE ALTOMARE
Gastone GREGORY BONFATTI
Barone Douphol DIELLI HOXHA
Marchese d’Obigny MIN KIM
Dottor Grenvil ADRIANO GRAMIGNI
Giuseppe FABRIZIO FALLI
Un domestico di Flora NICOLA LISANTI
Un commissionario GIOVANNI MAZZEI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Fabio Luisi
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Francesco Micheli
Scene Federica Parolini
Costumi Alessio Rosati
Luci Daniele Naldi
Nuovo allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 27 settembre 2018
È di nuovo il tricolore ad accogliere il pubblico dell’ultima opera della trilogia popolare in programma. Plasmata dalle luci di Daniele Naldi, la bandiera italiana non stenta stavolta a sfaldarsi sulla tonalità del bianco, colore distintivo della “signora delle camelie”. Nondimeno, la pulsione d’amore che muove l’intreccio recupera più volte la tinta sanguigna de “Il trovatore”, al pari del verde speranza di “Rigoletto”. L’allestimento di Francesco Micheli, con le scene di Federica Parolini, va difatti concepito come un progetto unitario per l’intera trilogia, dove inquietanti manichini ci ricordano che non siamo poi così diversi dai caratteri sul palco, disperdendoci nell’ambiguo bipolarismo a cui rimandano le diverse maschere. Lo spazio scenico permane spoglio e contornato da costumi (Alessio Rosati) alquanto kitsch, sebbene ne “La traviata” il ricorso alle pedane riesca a delimitare con maggiore efficacia l’azione negli spazi chiusi, talora portando in scena il contesto e le emozioni suscitate durante i duetti tra i personaggi. A questo si aggiungeva un significativo apporto registico, decisamente incentrato sulla giovane cortigiana, spumeggiante nel bagno all’interno del grande calice posto al centro del primo atto e pernio del girotondo tra il barone e Alfredo nella partita a carte, che in fondo si stanno giocando proprio la protagonista. Malgrado il primo malore di Violetta passi quasi inosservato, il decorso della tisi è gestito con severità e non lascia adito a una possibile guarigione, com’è evidente dalla posa a croce del soprano durante il lugubre prologo del terzo atto o dalla netta separazione in verticale del dottore e della paziente nel loro drammatico scambio, prima di quell’estenuante arrampicata su una cassettiera insormontabile, metafora di un passato oramai distante dal presente. È semmai il finale a essere la parte meno interessante, quando Violetta svanisce nel candore del bianco, eludendo l’improvvisa ricaduta mortale. Di pari passo, la conduzione di Fabio Luisi presta estrema delicatezza verso le frequenti parentesi introspettive, distinguendosi per sfumature sottili e anticonvenzionali, senza rinunciare a crescendo dall’esplosiva conclusione. In questa rivisitazione quasi didascalica della partitura, è il serrato stacco dei tempi a rendere ancora più subdoli i fervidi ritrovi del sostrato borghese, lasciando che la frenetica progressione dei trilli iniziali trasmetta quella sensazione d’euforia che la medicina del tempo associava agli attacchi tisici. Peccato che anche lui non esuli dai numerosi tagli di tradizione, divenuti oramai troppo consolidati nella direzione di quest’opera. A sua discolpa c’è però da aggiungere che la Violetta di Zuzana Marková non godeva di particolare estro dinamico, anzi si trovava a misurarsi con uno strumento senz’altro esteso fino al Mi♭ sovracuto, ma privo di spinta, col quale la riuscita dello scontro con Germont padre era tutt’altro che scontata. A fronte di acuti e agilità ben sostenute ma non altrettanto seducenti, il timbro transita da screziature di centro più vellutate, sufficienti a risolvere buona parte del ruolo col rilievo del fraseggio. Palpitante nell’emozione di un autentico boccio d’amore, desolata negli accenti di accorata rassegnazione e mai in difficoltà con gli agili movimenti registici, la sua interpretazione verte sulla potenza della parola alla pari di Germont, che le consente in parte di superare l’impasse dato da un secondo atto poco combattivo ed eccessivamente intimista, in cui i cauti rinforzi rivelano un vibrato ancora più stretto e dove frasi come “Amami Alfredo” si sarebbero sperse nella buca dell’orchestra, se non fosse stato per l’ausilio di Luisi. È probabilmente questo il modo con cui il soprano ceco riesce a garantire una fonazione estremamente nitida, impreziosita da una singolare gestione dei fiati, che porta maggiormente a convergenza il ruolo nei finissimi legati dell’ultimo atto. Rimane irrisolta una più marcata trasfigurazione vocale, attesa nell’aggravarsi della malattia. In rialzo la prova del tenore Matteo Lippi, almeno rispetto ai ricordi della precedente stagione, confidente nel recupero della melodiosa linea di canto di Alfredo, intrisa di suoni lucenti e tenuti ben in maschera. Non si tradisce neanche quando gli accenti d’amore insistono sulla zona passaggio, seppure l’impudente affronto nella festa da Flora e la cabaletta dell’aria siano stati ridimensionati da acuti più schiacciati. Deficita ancora per una scarsa sensibilità ai dettagli dello spartito, non tanto per qualche appianamento negli abbellimenti, ma per la poco convincente immedesimazione col testo, non agevolata da un portamento scenico goffo e perlopiù statico. Completava il quadro delle parti principali il Germont di Giuseppe Altomare, autorevole nell’ampia gittata dei centri e in grado di fare buon uso del fraseggio, ora scolpito da severi accenti, ora aperto alla definizione di frasi cariche di repressa tensione, atte a vincere la psicologia della protagonista. La restituzione complessiva del ruolo è, però, controversa, poiché non sempre l’interprete riesce a imporsi con voce ferma, soprattutto quando si tratta di fare leva sulle rivalse acute, affette da ampie oscillazioni che vengono meno alla saldezza degli ideali in cui si arrocca il suo personaggio. Di tutto rispetto la compagine dei comprimari, capeggiata dalla sonora e spigliata Flora di Ana Victória Pitts, passando per Min Kim (gioviale marchese), Marta Pluda (puntuale Annina), Dielli Hoxha (barone dall’emissione perfettibile), fino ai convincenti interventi di Adriano Gramigni (malinconico dottore), Giovanni Mazzei (commissionario), Fabrizio Falli (Giuseppe), Nicola Lisanti (domestico di Flora) e all’apporto di Gregory Bonfatti, a dire il vero timbricamente un po’ opaco rispetto al fresco ruolo di Gastone. Sempre calda ed entusiasta la risposta del pubblico a questo grande titolo, che attenderà appena due mesi prima di tornare sul palco del Maggio Musicale Fiorentino. Foto Pietro Paolini-TerraProject-Contrasto.