Napoli, Teatro di San Carlo, stagione di balletto 2007-2018
“LA DAME AUX CAMÉLIAS”
Musica Carl Davis
Coreografia Derek Dean
Marguerite MARIA YAKOVLEVA
Armand ALESSANDRO STAIANO
Padre di Armand EDMONDO TUCCI
Olympe CLAUDIA D’ANTONIO
Prudence Duvernoy VALENTINA VITALE
Nanine OTTAVIA COCOZZA
Gaston SALVATORE MANZO
Il Conte ERTUGREL GJONI
Il Barone FABIO GISON
Dottore MARCELLO PEPE
Benefattore GIUSEPPE CICCARELLI
Giselle LIOSA VALLOZZI
Albrecht GIUSEPPE CICCARELLI
Direttore Nicola Giuliani
Direttore del Corpo di ballo Giuseppe Picone
Assistente alla coreografia Ivan Gil Ortega
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo
Napoli, 16 settembre 2018
Immortale, rovinoso, catartico. La Dame aux Camélias, romanzo pubblicato da Alexandr Dumas figlio nel 1848 e tratto da una vicenda autobiografica, racconta l’amore impossibile per la giovanissima e sfortunata cortigiana Marie Duplessis ed è, a tutt’oggi, una delle opere della letteratura mondiale più fortunate e incisive, sul piano delle arti. Dumas e la Duplessis divennero Armand Duval e Marguerite Gautier, in un testo che è un insieme di ricordi, di realtà rivissute di rimpianti e rimorsi, di amore negato e amore venduto. Vi si dipinge tutta la solitudine delle prostitute di alta società che, dietro ai gioielli e agli abiti all’ultima moda, nascondevano la paura di una solitudine che sarebbe inevitabilmente sopraggiunta, con lo sfiorire dell’età o con la malattia, come nel caso di Marguerite.
Se la storia dei due infelici amanti divenne subito un testo teatrale, rielaborato dallo stesso Autore, e ispirò il libretto di Francesco Maria Piave per La Traviata di Giuseppe Verdi (1853), la danza non ha trascurato di ricondurre al codicemuto una vicenda che da due secoli appassiona lettori e pubblico (teatrale ma anche cinematografico). Già nel 1857, con la Violetta di Antonio Coppini, e nel 1858 con Rita Gutier di Filippo Termanini, per prendere corpo, nel Novecento, con La dama delle camelie di Aurel Millos (1945), Camille di John Taras (1946), Lady of Camelias (1951) di Antony Tudor, Kameliendame (1957) di Tatiana Gsovsky, Violetta di Maurice Bejart (1959), Marguerite e Armand di Sir Frederik Ashton (1963, storica creazione per la coppia Fonteyn-Nureyev), Die Kameliendame di John Neumeier su musica di Fryderyk Chopin, creato per il balletto di Stoccarda nel 1978 con Marcia Haydée ed Egon Madsen e che è divenuto uno degli spettacoli in repertorio del Balletto di Amburgo, dell’Opéra di Parigi e del Teatro alla Scala, giusto per dare una panoramica minima.
Quella di Derek Dean proposta in prima nazionale al San Carlo (dove già nel 1982 Beppe Menegatti aveva portato in scena Carla Fracci e Gheorghe Iancu con La signora delle camelie su musica di Carl Mariia von Weber, per la coreografia di Alberto Méndez) risale al 2011. La musica è di Carl Davis, compositore e direttore d’orchestra noto per aver creato le colonne sonore di serie tv britanniche e cinema, oltre che per la composizione di musica per balletto.
L’allestimento, completamente rinnovato rispetto alla prima messa in scena a Zagabria, si nutre di un romanticismo intrinseco che il linguaggio di Derek Dean riesce a rendere moderno, benché rimanga fedele alla fonte scritta, senza snaturarne i passaggi principali e al fine di non complicare troppo la vicenda da narrare. La sua finalità, difatti, è far comprendere al pubblico quello che sta raccontando senza parole, in un codice comunicativo che – lo sottolineava già il grande Salvatore Viganò all’inizio dell’era romantica – nella danza si riescono a raccontare al meglio le vicende del presente: è difficile parlare del futuro e del passato. Eppure Dean riesce a farci intravedere il passato e il futuro di Marguerite già in apertura: i creditori che portano via gioielli e gli abiti migliori in esposizione all’asta, il dramma di una vita che si spegne e la donna che intravede la sua bara che si avvia al cimitero colpiscono subito lo spettatore e lo proiettano su quello che inevitabilmente succederà e su quello che è già stato. Ma si comprende presto che si tratta di un delirio febbrile e Marguerite deve tornare in società, alla vita mondana senza la quale non potrebbe vivere. Tutto è costruito intorno ai protagonisti e ai personaggi comprimari, tutto è affidato alla danza e alle sapienti luci curate da Jean Michelle Désiré (Directeur Technique des Ballets Roland Petit), che creano un’atmosfera di volta in volta perfettamente calzante con lo stato d’animo dei protagonisti e la situazione scenica. Punto di partenza, per Dean come per la migliore tradizione coreica, è la musica: una musica che, per questo soggetto, è stato spesso punto nevralgico di riflessione per i coreografi. Se Neumeier aveva svelto Chopin per l’affinità tra la sua malattia e quella di Marguerite, oltre che per aver vissuto nello stesso periodo storico della protagonista, Derek Dean ha scelto una creazione nuova, che potesse rendere unico il suo allestimento, descrivendo situazioni e persone in un processo creativo in cui la danza e la musica avessero incubazione comune. Il prodotto finale, ben riuscito – sia pure con qualche défaillance a livello drammaturgico, caratterizza i personaggi e si colora di romanticismo, pur restando un lavoro riconoscibilmente contemporaneo. L’immersione negli stilemi e nelle sonorità della musica per la danza che ha sorretto le più importanti creazioni di Ottocento e Novecento affiora qua e là (chiaramente percepibili, fin dall’Ouverture, richiami a Čjajkovskj, a Delibes, a Prokofiev, Fauré, Stravinsky – reminiscenze inconsce che proiettano, anche chi non se ne rende conto, l’orecchio in atmosfere familiari). L’inserzione del metateatrale momento dedicato a Giselle è un interessante parallelismo tra due figure apparentemente lontane, come quella della pura contadinella tradita da una promessa bugiarda del principe Albrecht, e la cortigiana che, se pura non è, lo diventa nello spirito, dopo aver conosciuto l’amore vero, un sentimento capace di renderla persona migliore, come era successo per Albrecht giusto qualche anno prima rispetto alla pubblicazione di Dumas. Nel romanzo (e nell’allestimento di Neumeier) l’alter ego di Marguerite è Manon, una cortigiana probabilmente più attaccata al denaro, nella cui vita la nostra eroina si identifica e scorge un preludio alla sua fine. Come non ricordare l’ammonimento, nel romanzo: Manon a Marguerite: umiltà?
Gli elementi di scenografia, ben collocati e opportunamente rimossi a scena aperta, hanno contribuito a riscaldare la “scatola bianca” del palcoscenico, volutamente essenziale e non convenzionalmente arricchita di lussi d’epoca, in un connubio perfetto di classico e moderno, Ottocento e XXI secolo. Il grande specchio inclinato sul fondale, in apertura del II atto, ha permesso non solo di ammirare le geometrie della coreografia dall’alto, ma è apparso come un ampliamento di quello stesso specchio che Marguerite si rifiuta di guardare, quando il padre di Armand le impone di vedere chi è e com’è ridotta, in una lotta tra l’essere, l’apparire e il non essere più la ragazza florida e bella ma una maschera divorata dalla malattia. Ben costruite anche le proiezioni, che solitamente raffreddano la scena proiettandola in un mondo virtuale lontano dalla verità teatrale, mentre qui sono caldamente articolate in un mix di simboli e significanti. Tra le sezioni più affascinanti, le danze del II atto in cui un Armand offeso e ferito danza con Olimpia, cortigiana avvenente e ambiziosa, continuando a fissare Marguerite e il Passo a due finale dei due amanti, l’ultimo che li vedrà uniti e che il coreografo costruisce con un sapiente lessico in cui la tecnica, sia pure di grande difficoltà, non mette in ombra il dialogo tra i due e la loro passione (positiva o negativa che sia) può bucare la quarta parete per rapire il pubblico.
Brillante prestazione per i due protagonisti, Maria Yakovleva (Principal dell’Opera di Stato di Vienna) e Alessandro Staiano (Solista del Massimo partenopeo) – che si alterneranno con Anna Chiara Amirante e István Simon. Dotata di una figura armonica e proporzionala, Yakovleva ha interpretato Marguerite Gautier con grande trasporto e sicurezza tecnica; commossa fino alle lacrime durante i ringraziamenti finali, ha padroneggiato la scena mostrando grande affiatamento con il partner. Alessandro Staiano, le cui doti sono ben note ai nostri lettori (GBopera segue questo ragazzo fin dagli esordi e lo ha insignito del GBoscar della danza 2015), per cui non ci ripeteremo, ma si conferma nel pieno di un crescendo artistico: le sue doti interpretative hanno raggiunto un punto di notevole interesse, per cui è in grado di affiancare qualsiasi étoile ospite in un livello generale di completezza che lo rende un unicum nella compagnia sancarliana. Claudia D’Antonio, altra perla napoletana, ha dato ottima prova di sé, attirando diversi applausi a scena aperta, per i virtuosismi e la naturalezza con cui sa sempre portare in scena i suoi personaggi. Il ruolo del padre, drammaticamente complesso perché chiave di volta nella storia, è stato interpretato dal primo ballerino Edmondo Tucci, con l’esperienza di scena che un veterano come lui sa far fruttare nei momenti di pantomima, laddove è necessario far procedere l’azione in maniera efficace. In verità sarebbe stato qui opportuno un trucco scenico più marcato, poiché la tradizionale figura paterna ha lasciato il posto a un personaggio non così visibilmente più anziano di Armand e il duetto talvolta dava l’impressione di un antagonismo amoroso, più che di un richiamo all’ordine da parte di una figura veneranda. Particolare forse trascurabile, ma evidente. Tra i solisti, emerge Salvatore Manzo. il Corpo di Ballo, diretto da Giuseppe Picone, sta lavorando particolarmente bene e la gestione delle risorse umane appare vincente.
L’Orchestra Giovanile Luigi Cherubuni, diretta dal Maestro Nicola Giuliani, ha dato ottima prova di sé, con una esecuzione di bella qualità timbrica e dalle sonorità perfette. Era da tempo che non si ascoltava una simile qualità orchestrale al San Carlo, per il balletto.
Grande successo di pubblico, unanimità nell’entusiasmo all’auscita dal teatro: probabilmente il migliore prodotto messo in scena dalla Compagnia del San Carlo negli ultimi anni. È questa è la danza che vogliamo vedere e che emoziona il pubblico, anche laddove non vi siano numeri imponenti in organico. Perché la quantità non fa necessariamente la qualità.