“Non avendo mai goduto nella vita la vera e genuina gioia d’amore, voglio innalzare al più bello dei sogni un monumento, in cui dal principio alla fine questo amore sia appagato davvero e interamente. Ho in mente l’idea di un Tristano e Isotta, la concezione musicale più semplice e intensa. Con la vela nera che sventola alla fine voglio avvolgermi e morire”.
Così in una lettera del 1854 Wagner, che stava vivendo un periodo particolarmente difficile della sua vita, annunciò a Franz Liszt il progetto di comporre il Tristan und Isolde, un’opera nella quale l’amore avrebbe dovuto essere celebrato in tutta la sua forza passionale. In quest’opera, influenzata anche dalla la contemporanea lettura del Mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer, Wagner trasfigurò, infatti, il suo amore per Mathilde Wesendonck, moglie dell’industriale Otto Wesendonck, dal quale era stato ospitato tra il 1857 e il 1858 in uno châlet, chiamato dal compositore stesso l’Asilo situato nel parco della loro villa. Durante il suo soggiorno nell’Asilo, Wagner compose l’intero primo atto e parte del secondo del Tristano oltre a mettere in musica anche cinque poesie scritte da Mathilde, note con il titolo di Wesendonck-Lieder. Il 17 agosto 1858, in seguito allo scandalo fatto scoppiare dalla moglie, Wagner fu costretto a lasciare l’Asilo per rifugiarsi a Venezia, dove presso il Palazzo Giustiniani continuò a comporre il Tristano, che avrebbe completato soltanto il 6 agosto 1859 mentre si trovava a Lucerna nell’Hôtel Schweitzerhof, dove aveva trovato riparo dopo che anche il governo austriaco lo aveva indicato come un pericoloso rivoluzionario. Solo sei anni dopo, il 10 giugno 1865, l’opera sarebbe stata messa in scena a Monaco sotto la direzione di Hans von Bülow, ma il Preludio e morte di Isotta, pensato già come un brano sinfonico a sé stante, era stato eseguito per la prima volta a Praga il 12 marzo 1859 sempre sotto la direzione di Bülow ed era stato diretto da Wagner stesso a Parigi il 25 gennaio 1860.
Tra le tantissime incisioni del Tristan und Isolde, quella realizzata da Leonard Bernstein nel 1981 alla guida dell’Orchestra e del Coro della Radio Bavarese e costitiuita da un collage di tre diverse performances, in ciascuna delle quali è stato inciso un atto, rivela l’approccio sempre originale del direttore statunitense alle partiture operistiche. Nella concertazione di quest’opera, da lui definita “il lavoro cenrale di tutta la storia della musica”, egli mostrò sempre quella tendenza ad accentuare i contrasti sia di tempo che dinamici alla ricerca di una bellezza di suono che finisce per esaltare il carattere sensuale della scrittura wagneriana. Certamente i tempi appaiono francamente troppo lenti sin dal celeberrimo preludio, dove, però, ogni nota è eseguita con un peso ed un colore che dona ad essa quasi una sensuale corporeità non sempre facile da ottenere. Perfettamente coerente con questa lettura è la scelta dei tempi, lenti, ma sensuali, nei luoghi topici dell’opera come i due duetti tra i due protagonisti alla fine del primo e del secondo atto e il sublime Finale che comunque, insieme al preludio all’atto terzo, restano tra i momenti migliori dell’incisione. Per il resto si ha l’impressione di ascoltare una lunga sinfonia continua in cui le voci appaiono forse un po’ penalizzate rispetto ad un’orchestra che si segnala per la chiarezza timbrica delle diverse sezioni tra cui spicca per la sua chiarezza quella degli ottoni. Il cast vocale annovera alcune tra le più rinomate voci wagneriane di quegli anni a partire da Hildegard Behrens che sotto lo sguardo illuminante di Herbert von Karajan andava imponendo una visione delle eroine wagneriane e straussiane dai toni più fragilmente lirici e umani, lontani dai modelli granitici di una Flagstad o Nilsson. Accanto a lei l’altrettanto sensibile e intima caretterizzazione del Tristan di Peter Hofmann. Il resto della compagnia di canto vede nomi prestigiosi di cantanti in regolare presenza ai festival di Bayreuth: Bernd Weikl (Kurwenal), Hans Sotin (Marke), Yvonne Minton (Brangäne) e Heribert Steinbech (Melot).
Passando dalla tragica storia d’amore di Tristano e Isotta ambientata nel Nord Europa a quella di Rodolfo e Mimì nella Parigi della Bohème cantata dall’italiano Giacomo Puccini, che alla prima rappresentazione il 1° febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino aveva avuto un buon successo presso il pubblico, ma non presso la critica che la pose a confronto con la precedente Manon, Bernstein sembra perdere quel carattere sensuale che aveva caratterizzato la sua lettura della partitura di Wagner. Incisa a Roma tra il maggio e il giugno del 1987 (nel corso di alcune esecuzioni in forma di concerto nell”allora Auditorium di Santa Cecilia) con i complessi orchestrali e corali dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e un cast di artisti americani, all’epoca assai noti al Metropolitan di New York, ma molto meno in Europa e in modo particolare in Italia, questa Bohème non può essere certo considerata come un’edizione di riferimento. Pur mostrando attenzione all’ordito orchestrale e staccando dei tempi adeguati negli episodi brillanti in cui è rappresentata la vita bohèmienne, il direttore statunitense allarga troppo quelli delle sezioni liriche senza, però, riuscire ad esaltare la linea del canto come ci si sarebbe aspettato. Per lo scrivente appaiono poco coinvolgenti dal punto di vista della partecipazione emotiva Mi chiamano Mimì, O soave fanciulla, il Finale del terzo atto e quello del quarto da Sono andati, mentre con adeguata leggerezza e spensieratezza è resa l’allegra vita bohèmienne. Una registrazione che divise molto, anche il mercato discografico abituato in quegli anni a cast formati da “all stars” mondiali (i vari Pavarotti, Domingo, Carreras, Freni, Caballé…). Quello scelto da Bernstein di certo era controcorrente dettato forse dal volere imporre voci giovani e in ascesa. Senza fare inutili confronti, nel 1987, i nomi di Jerry Hadley (Rodolfo), tenore dai bei mezzi vocali, ma poco incline a un canto variato, Thomas Hampson (Marcello), Barbara Daniels (Musetta), Paul Plishka (Colline) e soprattutto una assai debole Angelina Réaux (Mimì), non strapparono (e non strappano) ovazioni.