Verona, Teatro Romano, Estate Teatrale Veronese 2018
PAUL TAYLOR DANCE COMPANY
In programma: “Cloven Kingdom” (1976), “Piazzolla Caldera” (1997), “Promethean Fire” (2002)
Direttore Artistico Paul Taylor
Direttore artistico designato Michael Novak
Maestro ripetitore Bettie De Jong
Design luci principale Jennifer Tipton, James F. Ingalls
Scene e costumi Santo Loquasto, William Lvy Long
Direttore esecutivo John Tomlinson
Verona, 18 agosto 2018
La sensazione di andare ad assistere a un evento memorabile è stata preannunciata da un tramonto cremisi, riflesso sulle acque dell’Adige che passano sotto a ponte pietra. Verona d’estate sa essere davvero affascinante, specie dalla cornice del teatro romano. Sopra di noi c’è una falce di luna su un cielo cobalto quando sul palco appaiono le famose figure in frac di Paul Taylor. Il programma della serata prevede tre fra le sue più famose e pluripremiate coreografie: Cloven Kingdom, Piazzolla Caldera e Promethean Fire, rispettivamente del ‘76, ’97 e 2002. Questo dice già all’ultimo spettatore capitato per caso a vedere questo spettacolo che è al cospetto di un grande coreografo, già maestro d’avanguardia da quando, neanche venticinquenne, ha messo in piedi la propria compagnia di ballo diventando l’emblema della modern dance americana. Oggi è il più anziano, con i suoi 88 anni, tra i grandi coreografi ancora in attività, pensiamo a Carolyn Carlson (75), a Mats Ek (73) e a William Forsythe (68) ed il più premiato e osannato con ben 8 lauree ad honorem nel suo palmarés. Sapendo già tutto ciò, ci mettiamo d’impegno e cerchiamo di guardare Cloven Kingdom sotto un’ipotetica lente di osservazione prestata dall’arte pittorica che fu quella dell’avanguardia sviluppatasi nel primo Novecento attraverso movimenti anche molto dissimili tra loro, come l’Astrattismo, il Dadaismo e il Futurismo. Scorgiamo, infatti, contaminazioni soprattutto nel corredo iconografico dove i danzatori indossano maschere che avvolgono la metà superiore della testa coprendo gli occhi e lasciando libera la bocca: un’astrazione della personalità che non richiama i bozzetti dei costumi di Depero e Malevic, né i manichini di De Chirico. Si tratta di un espediente per focalizzare l’attenzione degli spettatori sul gesto, per dire che l’abito sociale che vestiamo costituisce solo una condizione di comodo. Cambiano le scene, per effetto del velocissimo alternarsi dei ballerini che entrano in scena con dei copricapi dalla forma marcatamente geometrica (sferica e cubica) e si muovono in coreografie i cui movimenti ricordano quelli delle strutture mobili di Calder. Oltre a questo notiamo una sorta di duello, insomma di conflitto tra la musica classica e quella tribale che vengono continuamente mixate tra loro per marcare la natura conflittuale interna all’essere umano. Per quello che potremmo tradurre come il regno del folle/fesso, 8 donne in jersey variopinti e 4 uomini in frac mettono in contrasto l’eleganza dell’apparenza con l’arroganza del gesto (scimmiottato); perché l’uomo ha istinti primordiali che è incapace di nascondere sotto ad un’apparenza formale. Per noi, per un certo momento, la coreografia richiama, nel concetto, la scena del “convivio con scimmione” del film The Square (Palma d’oro a Cannes 2017). Con Piazzolla Caldera è invece il tango a fare da protagonista. Il tipico ritmo argentino; le luci calde provenienti da lampadari spioventi (Jennifer Tipton) e i costumi rossoneri dello scenografo di Woody Allen (Santo Loquasto) sono già molto per quest’alternanza duo-gruppo / maschi-femmine, ma niente di più se non per un duo maschile molto ben ideato per reciprocità d’intesa. Uno sull’altro e poi uno fulcro dell’altro: sostegno solidale che esprime, appunto come eccezione, la condizione di predatore dell’uomo-animale, all’indomani del darwinismo sociale per cui la “lotta per la sopravvivenza” diventa la regola delle comunità umane. Dopo il secondo intervallo chiude Promethean fire (sulla famosa toccata e fuga in re minore di J. S. Bach) in cui è impegnato tutto il corpo di ballo (ben 16 elementi). Stavolta la danza riscatta la sua preminenza. Qui Taylor, seppur ironizzando attraverso l’esasperazione dei gesti, dà spazio ai passi di danza classica. Allora godiamo di Grand jeté in cui le ballerine attraversano addirittura tutto il palco e finiscono tra le braccia del partner; di Sissonne (salti con slancio) in diverse varianti e intensità e di Attitude (pose con una gamba tesa levata e inclinazione del corpo), altra componente tipica in Taylor. Per tutto questo, la coreografia sembra un saggio di danza a quadri speculari, come figure caleidoscopiche, come fuochi artificiali per quel muoversi dei danzatori in fila partendo da un unico punto comune. Ripensandoci, le coreografie viste a Verona non sembravano così politicamente impegnate, ma sappiamo che lo sguardo del coreografo americano, allievo di Martha Graham, è sempre stato lo guardo di un attento osservatore della natura umana perennemente afflitta da conflitti sessuali, famigliari e sociali. Proprio della Graham notiamo che ha fatto suo quel concetto-simbolo della danza moderna: l’alternarsi di contraction e release, di contrazione e rilascio del corpo che respirando trasmettere le più intime emozioni. Poi dalla Graham è stato definito un bad boy (cattivo ragazzo) per quegli atteggiamenti provocatori e spiazzanti (come ballerino) e per quell’ironizzare sui periodi particolarmente problematici della storia americana (come coreografo): la guerra imperialista, il bigottismo, addirittura il femminismo. Di certo non gli manca la passione, la passione per l’arte della danza, quel fuoco che arde dentro e brucia il superfluo che può distrarre nel cammino che porta alla completa manifestazione del talento, per la gioia di chi lo possiede e per chi assiste alla sua messa in scena. Foto Brenzoni