Venezia, Teatro La Fenice: Gregory Kunde dirige “Il barbiere di Siviglia”

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2017-2018
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Melodramma buffo in due atti,  Libretto di Cesare Sterbini, dalla commedia Le Barbier de Séville di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais.
Musica di Gioachino Rossini
Il conte d’Almaviva FRANCISCO BRITO
Bartolo OMAR MONTANARI
Rosina CHIARA AMARÙ
Figaro JULIAN KIM
Basilio MATTIA DENTI
Berta GIOVANNA DONADINI
Fiorello MATTEO FERRARA
Un ufficiale EMILIANO ESPOSITO
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Gregory Kunde
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Maestro al fortepiano Roberta Ferrari
Regia Bepi Morassi
Scene e costumi Lauro Crisman
Light designer Vilmo Furian
Allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 24 agosto 2018
Gregory Kunde debutta alla Fenice, in veste di direttore, con Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini. Questo è certamente un motivo di grande interesse, che ci ha spinti a tornare ad assistere alla collaudata messinscena firmata dal regista Bepi Morassi, con le scene e i costumi di Lauro Crisman e le luci di Vilmo Furian, divenuta ormai un classico della Fondazione Teatro La Fenice. La prima di domenica 19 agosto si è svolta nell’ambito delle celebrazioni in memoria di Tullio Serafin promosse, nel cinquantesimo anniversario della morte del maestro, dall’Archivio storico Tullio Serafin. Nello stesso tempo la produzione dell’opera si inserisce nel Progetto Rossini, con il quale la Fenice ha voluto rendere omaggio al compositore pesarese nel centocinquantesimo anniversario della morte. Il Barbiere di Siviglia – un’opera particolarmente famosa, di cui, si può dire, non c’è chi non sia in grado almeno di canticchiare qualche frammento, in primis l’universale “Figaro qua, Figaro là” – ha fatto forse arricciare il naso a certi intellettuali proprio per la sua popolarità, per una presunta orecchiabilità sempliciotta di questa musica, che peraltro, ad un’analisi un po’meno superficiale, non può non apparire una tra le più sublimi mai scritte. Occorre, a questo proposito, notare – sulla base della ricerca musicologica portata avanti dal compianto Alberto Zedda, uno dei curatori dell’Edizione critica delle opere di Gioachino Rossini, cui si deve proprio quella del Barbiere quanto un simile capolavoro sia stato “maltrattato”, in base a una tradizione esecutiva che, rispetto al dettato rossiniano, si era permessa di eliminare, rimaneggiare o sostituire intere arie, nonché di assegnare determinati ruoli a registri vocali diversi da quelli prescritti dall’autore: ad esempio quello di Rosina, troppo spesso affidato a un soprano di coloratura, anziché a un contralto, o quello del Conte d’Almaviva, cui generalmente dava voce un tenore di grazia, pur essendo stato concepito da Rossini per un baritenore, con il conseguente taglio, nel finale secondo, dell’aria “Cessate di più resistere”, troppo ardua per una voce leggera. Del resto, con analoga disinvoltura l’aria di Bartolo “A un dottor della mia sorte” veniva sostituita da una più facile. Anche la drammaturgia si basava su una comicità di maniera derivata dalla tradizione dell’opera buffa settecentesca, senza tener conto della “modernità” di certi personaggi delineati da Beaumarchais, che – al pari dei raffinati motivi e colori della musica di Rossini – evocano un’atmosfera meno ridanciana di quella tradizionalmente propinata alle platee: ad esempio, la borghese Rosina e il nobile Almaviva, uniti da un genuino sentimento d’amore, che sarà coronato dal matrimonio; il borghese Figaro, impegnatissimo ad affermare, con intelligenza e determinazione, i diritti della propria classe sociale; e, ancora, Bartolo, un facoltoso dottore in medicina, che sembra ignorare quanto la Rivoluzione abbia cambiato i rapporti sociali. Con aggiunte o sostituzioni di strumenti, era stato appesantito lo stesso tessuto orchestrale, in base al gusto tardo romantico, a scapito della trasparenza, dell’essenzialità dell’orchestrazione rossiniana, atta ad assecondare pienamente le voci.
Emulo del “veterano” tra i tenori, Placido Domingo, che si è dedicato, a partire dal 1973, anche alla direzione d’orchestra, Gregory Kunde – dopo il debutto europeo come direttore, nel 2011, al Bergamo Musica Festival con Maria di Rohan – impugna nuovamente la bacchetta su podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice, per dirigere il Barbiere rossiniano. E i risultati sono – a nostro avviso – decisamente convincenti, anche alla luce di quanto si è dianzi affermato. L’edizione proposta non è quella critica, tuttavia ci è parso che essa sia un buon compromesso tra rigore filologico e tradizione, per quanto riguarda sia le scelte registiche che l’impostazione direttoriale. Il suono distillato dal maestro americano è sempre estremamente morbido e, nel contempo, diffusamente brillante, frutto di una concertazione di raffinato equilibrio, finalizzata alla messa in valore delle voci, come peraltro era prevedibile da parte di un direttore-tenore, in grado di accompagnare con particolare sensibilità la linea melodica quanto i passaggi virtuosistici del canto. Anche sotto altri aspetti la direzione di Kunde coniuga sapientemente senso della misura ed esigenze espressive, anche grazie al sostegno di una compagine orchestrale, capace di un perfetto insieme come di pregevoli interventi solistici. Scattante, ma anche percorsa da una leggerezza mozartiana è risultata l’esecuzione delle sinfonia, caratterizzata da un elegante e coeso impasto sonoro, nel corso della quale si sono fin da subito imposte le doti solistiche dell’orchestra. Di prim’ordine il giovane cast. Il tenore Francisco Brito col suo timbro puro ed omogeneo ha delineato un Almaviva giustamente istrionico nei suoi enfatici camuffamenti come teneramente innamorato nei momenti di sincerità, dimostrandosi sicuro negli acuti e capace di un dignitoso fraseggio. Forse un tantino impacciato in “Ecco ridente in cielo”, intonata con voce ancora fredda, si è rapidamente fatto più spigliato nel prosieguo dell’azione, fin da “Se il mio nome saper voi bramate”, tra l’altro accompagnandosi veramente con la chitarra. Lontano da eccessi rocamboleschi è il Figaro offerto dal baritono Julian Kim, che ne fa un personaggio credibile sia sul piano vocale che su quello gestuale, per quanto non del tutto sorretto, nella serata, dalla sua abituale eleganza timbrica. La stessa cavatina di sortita, “Largo al factotum”, era improntata ad una certa sobrietà, sottraendola al tradizionale cliché interpretativo, che cercava facili quanto esteriori effetti. Molto ben delineato risulta il personaggio di Rosina da parte di Chiara Amarù, che – analogamente ai due interpreti precedenti – si distanzia, in buona sostanza, dallo stereotipo, vagamente misogino, della donna diabolicamente astuta e vanamente capricciosa, proponendoci una ragazza, che, se si rivela tutt’altro che sprovveduta, è anche animata da ottimi sentimenti. La sua vocalità appare scevra da ogni pesantezza e decisamente agile nelle colorature, cui il mezzosoprano riesce a dare un senso, che va al di là del puro virtuosismo, come si è constatato ampiamente in “Una voce poco fa”. Notevole per intensità espressiva “Contro un cor che accende amore”. Abbastanza lontano, soprattutto vocalmente, dai tradizionali espedienti comici, anche il Don Bartolo di Omar Montanari, che unisce un bel timbro baritonale a efficace fraseggio e giusto accento interpretativo, destreggiandosi con sicurezza nell’ardua “A un dottor della mia sorte”, in particolare nello scioglilingua finale. Un po’ più di maniera il Don Basilio interpretato dalla voce profonda di Mattia Denti, che nella celeberrima “La calunnia è un venticello” si abbandona a un’espressività caricaturale, pur senza esagerare, tra l’altro senza stringere il tempo nel finale come, crediamo, volesse lo stesso Rossini. Spiritosa Giovanna Donadini nei panni di Berta, che non delude interpretando “Il vecchiotto cerca moglie”, dove sfoggia verve e leggerezza. Spigliato il Fiorello di Matteo Ferrara. Inevitabilmente macchiettistico Emiliano Esposito come Ufficiale. Inappuntabile come di consueto il coro. Che dire della regia di Morassi? La macchina scenica da lui costruita, coadiuvato da Lauro Crisman e Vilmo Furian, si conferma molto efficace: il regista veneziano attinge alla tradizione, ma ne tempera gli eccessi. Tutti si muovono in una scenografia dominata dal rosso carminio: i suonatori sotto il balcone di Rosina, diretto dall’enfatico gesto di un improbabile maestro; Figaro e Almaviva, che nel duetto “All’idea di quel metallo” accennano a qualche passo di danza, armeggiando con due bastoni da passeggio a mo’ di Fred Astaire e Ginger Rogers; Bartolo e Basilio, che giocano a carte nella scena in cui quest’ultimo intona “La calunnia”. Particolarmente riuscito appare il personaggio di Berta, che ha l’aria di una pazzerella, che talora esplode in astiose risate, simili a quelle della strega di Biancaneve nel celebre cartoon disneyano. Gradevoli i costumi di foggia piuttosto tradizionale. Efficaci le luci, che assumono una tonalità rossa all’esplodere dell’ira di Bartolo, quando si rende conto del raggiro ordito dal Conte-Don Alonso con la complicità di Figaro. Fragorosi applausi finali hanno festeggiato un po’ tutti con ovazioni per la Amarù e, naturalmente, Kunde. Foto Manuel Silvestri