Verona. Fondazione Arena di Verona. 96^ Opera Festival 2018.
“VERDI OPERA NIGHT”
“LA FORZA DEL DESTINO” – Sinfonia
“RIGOLETTO” – Atto II
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma “Le roi s’amuse” di Victor Hugo.
Musica di Giuseppe Verdi
Rigoletto LUCA SALSI
Il duca di Mantova RAME LAHAJ
Gilda LISETTE OROPESA
Marullo BIAGIO PIZZUTI
Matteo Borsa CARLO BOSI
Il conte di Ceprano ROMANO DAL ZOVO
Il conte di Monterone NICOLÒ CERIANI
Un uscere GOCHA ABULADZE
Un paggio BARBARA MASSARO
“IL TROVATORE” – Parte III – Il figlio della zingara
Dramma in quattro parti e otto quadri, su libretto di Salvatore Cammarano, tratto dalla tragedia “El Trovador” di Antonio García Gutiérrez.
Musica di Giuseppe Verdi
Manrico FRANCESCO MELI
Leonora SERENA GAMBERONI
Azucena VIOLETA URMANA
Il conte di Luna SIMONE PIAZZOLA
Ferrando ROMANO DAL ZOVO
Ruiz CARLO BOSI
“LA TRAVIATA” – Atto III
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal romanzo “La dame aux camélias” di Alexandre Dumas.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry MARIA MUDRYAK
Alfredo Germont LUCIANO GANCI
Giorgio Germont SIMONE PIAZZOLA
Annina MARTINA GRESIA
Il dottor Grenvil ROMANO DAL ZOVO
Orchestra, Coro, Ballo e Tecnici dell’Arena di Verona
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del Coro Vito Lombardi
Regia Stefano Trespidi
Coreografia Luc Bouy
Scene Michele Olcese
Lighting design Paolo Mazzon
Projection design Sergio Metalli
Nuovo allestimento della Fondazione Arena di Verona
Verona, 26 agosto 2018
Gala di grande fascino per l’avviarsi alla conclusione del 96-esimo Opera Festival, tributo alla trilogia popolare verdiana. Il grande compositore di Busseto fa da protagonista fin dall’ingresso in Arena, quando un pianoforte riecheggia reminiscenze di numeri musicali non compresi negli atti proposti in locandina, mentre sulla gradinata di fondo il projection design Sergio Metalli prevede la proiezione dei manifesti di “Rigoletto”, di cui era in programma il secondo atto, “La traviata” e “Il trovatore”, riproposti nel loro terzo atto. Il ruolo della gradinata retrostante il palco non è da meno neppure nel proseguo, dove le proiezioni forniscono il contesto dell’azione vincolata agli spazi interni, perlopiù realizzati attraverso pochi elementi rappresentativi disposti su piani inclinati, dilatando lo spazio scenico in modo da recuperare anche nelle ambientazioni più raccolte quell’effetto magnificente che caratterizza le scenografie areniane e che viene assolutamente riprodotto nel fastoso accampamento allestito da Michele Olcese nella sezione da “Il trovatore”. È proprio in questo atto, infatti, che anche la meticolosa ricerca dei costumi e degli accessori d’epoca concorre maggiormente al risalto del quadro d’insieme, lasciando che il fuoco fiammeggi sull’oro degli elmi e che le accurate soluzioni illuminotecniche di Paolo Mazzon amalgamino i bronzi degli stendardi con i contrasti rosso-blu delle vesti, verso una sorta di bozzetto vivente. Di pari passo, lo stampo registico di Stefano Trespidi evidenzia i rapporti interpersonali e legati al microcosmo dei vari personaggi con gesti macroscopici, assolutamente pertinenti per una finzione nel vasto spazio areniano. Ne sono prova il canto a distanza di Rigoletto e Gilda nel duetto finale, sintomo di due filoni di sentimenti inconciliabili, poco prima che i due vengano immobilizzati visivamente nelle loro posizioni da un ultimo, significativo, colpo di luce. Sul versante musicale, Andrea Battistoni si approccia alla sinfonia de “La forza del destino” con movimenti ampi e dinamiche piatte. Direttive che non favorivano l’emersione del tema di Leonora e che non sembrano essere particolarmente congeniali all’orchestra, giacché l’organico si trova più volte a dover prendere l’iniziativa, come nel rimarco degli interventi conclusivi delle percussioni. È l’esordio di una direzione che, malgrado il pertinente stacco dei tempi, non lascia spazio a molte sorprese, concentrandosi prevalentemente sulle esigenze dei singoli cantanti, evidenti al momento della celebre cabaletta di Manrico. Così, fatta eccezione per le coinvolgenti coreografie di Luc Bouy, è ancora il sorgere della luna da dietro la scena a costituire la maggiore attrazione della serata. Il livello interpretativo aumenta già a partire dal caleidoscopico Rigoletto di Luca Salsi, sicuramente un po’ esuberante nel chiedere il bis del duetto conclusivo con Gilda, ma vincente per un’accurata opera di limatura vocale nel ruolo, che gli consente di tradire apprensione e sfumare i passi discendenti secondo il topos del lamento, senza rinunciare a scagliare fulminei accenti di disperazione. Particolarmente rotondo risulta il canto consolatorio nei confronti della figlia, scevro dalle aperture vocaliche riscontrate talvolta su alcune note di rinforzo, mentre la cabaletta conclusiva dà prova di rilevante senso ritmico, sebbene la resa complessiva non colga gli spunti per qualche trasposizione acuta di tradizione, su cui il timbro rischierebbe di risuonare più intubato. Una bella sorpresa anche l’opalescente Gilda di Lisette Oropesa, in grado di schiudere un racconto dall’emissione morbida e al contempo ben proiettata, sui cui vocalizzi le dinamiche si affinano per restituire tutta la vulnerabilità di un cuore turbato. La tendenza a un vibrato alle volte stretto e la predisposizione verso tempi più moderati si fanno, invece, sentire nel duetto finale, dove il giovane soprano fatica a seguire il tempo imposto dal direttore, restituendo un’interpretazione più generica e approdando a qualche acuto più schiacciato, senza con questo rinunciare alla lunga tenuta del Mi bemolle conclusivo. Soddisfacente anche l’aria di Rame Lahaj come Duca di Mantova, dalla voce un po’ più ovattata ma omogenea e sicura nel passaggio. Dispiace che il volume non riesca a sfogarsi in acuto, che l’uscita dalle note acute porti a qualche difformità fonetica e per le frequenti imprecisioni nella restituzione delle agilità, tuttavia il tenore colpisce prevalentemente per un’emissione sorprendentemente limpida, a cui si potrebbe chiedere un più intenso scavo dinamico. Proseguendo con gli interpreti principali, i toni del conte di Luna di Simone Piazzola (impegnato anche nel collaudato intervento di Germont padre nell’ultimo atto de “La traviata”) si fanno sorprendentemente languenti sul tenero richiamo verso Leonora, anche se l’emissione del baritono appare meno a fuoco nella salita di registro rispetto alla nitida discesa ai gravi. Accanto a lui, pure la prova di Violeta Urmana nel ruolo di Azucena dava qualche segno di discontinuità, in bilico tra estremi di registro di ragguardevole smalto e un’area di centro piuttosto opaca. Al di là di questo e a dispetto degli estenuanti movimenti scenici, però, l’elevato calibro interpretativo ne ha fatto emergere una zingara di rilievo, all’altezza della difficile parte protagonistica. Spostandosi a Castellor era, poi, grande l’intesa tra il tenore Francesco Meli (Manrico) e il soprano Serena Gamberoni (Leonora), diafana negli affievolimenti di fine frase e precisa nello schiudere gli acuti di un duetto d’amore destinato a non sussistere. Del resto, la resa del cantabile di Meli era intrisa di un lirismo caldo e passionale, smussato da modulazioni dinamiche coinvolgenti e supportate da un’efficace spinta proiettiva. Rimane qualche perplessità sugli estremi acuti, poiché al termine della celebre cabaletta, eseguita un semitono sotto e in cui la voce aveva più difficoltà a superare il muro dell’orchestra, la salita ai Si naturali sovracuti è stata comunque faticosa, malgrado le inconsuete pause concesse dal direttore per agevolarne l’attacco. Giungendo al termine, dopo l’aria del buffone della corte di Mantova e le ritorte della zingara, l’apporto dell’ultimo personaggio popolare della trilogia verdiana non poteva più essere rimandato. Stiamo parlando del terzo atto de “La traviata”, con la celebre aria di Violetta, impersonata da Maria Mudryak. Anche in Arena, l’ultimo atto si dimostra quello in cui il soprano porta maggiormente a convergenza la corposità delle messe di voce e la finezza del fraseggio, anche se il personaggio dovrebbe risultare più indebolito dagli effetti della tisi di quanto in realtà non sembri. Si tratta, però, di un risultato che viene in parte perso nel suo principale momento solistico, affetto da qualche imprecisione nello stacco delle puntature di fine frase e da segni d’incertezza sui legati. Permane, inoltre, un certo contrasto tra la morbidezza emissiva del canto di centro in mezzopiano, dove i suoni si fanno più raccolti, e le strette vibrazioni sugli acuti di forza, spesso presi dal basso con intonazione appena calante. A togliere l’aria stagnante di morte che regna nella stanza della giovane cortigiana, gli accenti di Luciano Ganci (Alfredo) si stagliano nitidi e suadenti, sicuri sugli acuti seppure con qualche rallentamento rispetto alla direzione, passando per qualche abbellimento meno curato. Completavano il cast i partecipativi interventi di Biagio Pizzuti (Marullo), Carlo Bosi (nel ruolo di Matteo Borsa e Ruiz), Romano Dal Zovo (scuro conte di Ceprano, Ferrando e dottor Grenvil), Nicolò Ceriani (determinato conte di Morterone) e l’uscere di Gocha Abuladze, mentre la controparte femminile vedeva l’apprensivo paggio di Barbara Massaro e l’accorata Annina di Martina Gresia. Nondimeno, il coro dell’Arena di Verona preparato da Vito Lombardi ha assolto con convinzione alla sua funzione didascalica, dal colorito popolaresco, spiccando per compattezza e appropriatezza espressiva nel confermarsi un saldo trait d’union tra i tre diversi scenari portati in scena. Foto Ennevi per Fondazione Arena