Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2017-2018
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Henrik Nánási
Violino Giovanni Andrea Zanon
Franz Schubert: Sinfonia n. 6 in do maggiore D 589
Béla Bartók:Concerto n. 1 per violino e orchestra sz 36; Concerto per orchestra sz 116
Venezia, 6 luglio 2018
A conclusione della Stagione sinfonica 2017-2018 si è svolta al Teatro La Fenice una serata nel nome di Schubert – autore ricorrente nella relativa programmazione, di cui si è indagata la produzione sinfonica – rappresentato dalla Sesta sinfonia, e di Bartók, presente con due titoli importanti – il Primo concerto per violino e il Concerto per orchestra –, relativi a due diverse fasi creative del sommo musicista ungherese: gli anni di transizione, seguenti alla produzione giovanile, e il periodo americano, poco prima della morte. Solista al violino, un giovanissimo interprete veneto, verosimilmente destinato a divenire – se non lo è già – una Star di prima grandezza nel panorama concertistico internazionale; sul podio l’ungherese Henrik Nánási, apprezzato protagonista di un concerto anche nella precedente stagione veneziana, che si è confermato uno dei massimi interpreti del repertorio magiaro, nella fattispecie bartokiano.
Improntato ad una cifra di classico equilibrio è risultato il suo Schubert, immerso – grazie a scelte dinamiche ed agogiche di sorvegliata misura – in un’aura di olimpica serenità. L’interpretazione di Nánási ha spesso evocato la levità, la grazia, la compostezza, ma anche la verve delle sorprese, che caratterizzano il grande Haydn, cui – insieme a Rossini – guardava Schubert, tra il 1817 e il 1818, allorché attendeva alla composizione della sinfonia. Dopo l’Introduzione (Adagio), il cui clima di attesa è stato reso sempre con mano leggera anche per quanto concerne il suono, è risuonato il primo tema del movimento iniziale (Allegro), venato di humour, affidato ai flauti, per poi passare a tutta l’orchestra. Sotto il segno di Haydn si è svolto anche il secondo movimento (Andante) col suo aggraziato primo tema esposto dai violini, subito ripreso da flauti e clarinetti. Scattante il terzo movimento (Presto), uno scherzo dai contrasti dinamici, con un Trio (Più lento) che aveva l’andamento di una danza lenta e cadenzata. Lo spirito rossiniano delle Sonate a quattro aleggiava nel finale (Allegro moderato), in forma di Rondò, in cui appaiono numerosi elementi melodici in una costante propulsione ritmica.
Una grande personalità d’artista ha rivelato Giovanni Andrea Zanon nel Concerto n. 1 per violino e orchestra di Bartók, brillando, tra l’altro, per la pienezza e la rotondità del suono, cui si coniugava una davvero ragguardevole maturità interpretativa. Il concerto è dedicato alla giovane violinista Stefi Geyer, di cui il compositore era profondamente innamorato, senza peraltro venir corrisposto, a causa della rigida formazione religiosa di Stefi, assolutamente inconciliabile con il materialismo ateo di Bartók. Si divide in due soli movimenti, corrispondenti ad altrettante immagini della Geyer: la prima corrispondente alla fanciulla, oggetto d’amore, l’altra all’artista, oggetto d’ammirazione. Davvero encomiabile la concentrazione, unita a grande sensibilità musicale, dimostrata dal giovane solista in questo pezzo, che comincia con il Leitmotiv di Stefi, seguito da altri motivi, sottoposti via via a molteplici trasformazioni, che sono state eseguite dal solista assicurando l’estrema coerenza logica insita nel primo movimento (Andante sostenuto), che nel contempo è risultato anche particolarmente espressivo, come si conviene ad una pagina nata sotto l’impulso del sentimento. Ha iniziato autorevolmente il violino solo, poi alla settima battuta sono entrati anche i violini dell’orchestra, intrecciando un fitto reticolo contrappuntistico attorno all’idea principale ed evocando l’atmosfera magica, creata da Bartók, analogamente a quella che percorre l’inizio della Musica per archi, percussione e celesta. Alla coerenza del primo movimento si è contrapposto il carattere più eterogeneo, estroso, brillante del secondo (Allegro giocoso), con cambiamenti di tempo all’apparizione del secondo tema (Meno allegro e rubato). Anche qui il giovane violinista si è dimostrato già maturo sotto il profilo tecnico-interpretativo, affrontando con penetrante, sicura capacità di lettura la parte solistica, che esige un virtuosismo estremamente impegnativo. Precisa e partecipe l’orchestra, sapientemente guidata dal misurato gesto direttoriale. Applausi a non finire, placati da un bis bachiano, eseguito magistralmente: L’Allemande dalla Partita n. 2 per violino, BWV 1004.
L’Orchestra della Fenice è stata – com’era prevedibile – protagonista del pezzo conclusivo del concerto. Si tratta dell’ultima grande composizione di Bartók, che è anche forse l’opera sinfonica più conosciuta del maestro ungherese. Composta nel 1943, in seguito a una commissione da parte del direttore della Boston Symphony Orchestra, Serge Koussevitzky, venne eseguita per la prima volta a New York, il 1° dicembre 1944, con esito trionfale, sotto la direzione dello stesso Koussewitzky. Più tradizionale rispetto a certe composizioni precedenti, riproduce, coi suoi cinque movimenti, la cosiddetta forma “ad arco” o “a ponte”, tipica del barocco musicale, con al centro un tempo lento, compreso tra movimenti più mossi e vivaci. Si tratta di un pezzo, assai interessante dal punto di vista ritmico, armonico e timbrico, concepito per mettere in evidenza – spesso con interventi di livello virtuosistico – le capacità esecutive dei singoli strumenti, delle varie sezioni o dell’orchestra nel suo insieme. Le sonorità cupe degli archi, in perfetta coesione, hanno intonato la lenta, misteriosa Introduzione, procedente per quarte, con cui si apre il primo movimento, in forma sonata, che, acquistando sempre più in ritmo ed energia, nel corso di un ostinato orchestrale, sfocia nell’Allegro vivace, in cui al primo tema energico e risoluto – l’idea-base dell’intero movimento – si è contrapposto un secondo tema cullante presentato dall’oboe.
Il virtuosismo ha dominato, nel secondo movimento, Presentando le coppie, dove hanno veramente brillato alcune coppie di fiati, nell’ordine: i fagotti a distanza di sesta, gli oboi per terze, i clarinetti per settime, i flauti per quinte e le trombe per seconde, mentre un corale degli ottoni di ascendenza mahleriana è risuonato solenne nel cuore del movimento. In posizione centrale, il terzo movimento, Elegia, una sorta di “musica notturna”, si è segnalato per l’atmosfera cupa, per quella sua malinconia, che non si trova tanto spesso in Bartók. Vario nello stile è risultato il quarto movimento, Intermezzo Interrotto, un rondò vivace e popolaresco costruito su tre temi: il primo dal ritmo disuguale; il secondo più disteso e cantabile, esposto prima dalle viole e poi dai violini; il terzo caricaturale, riproducente il motivo utilizzato da Šostakovič nella Settima sinfonia “di Leningrado” per descrivere la marcia dell’esercito nazista durante l’invasione dell’URSS nella seconda guerra mondiale. Irresistibile l’ultimo movimento (Finale), fra i brani più trascinanti del compositore ungherese, dove le sezioni strumentali – dal motto iniziale dei corni al suono festoso delle trombe sul fitto moto perpetuo di violini e viole, al gioioso fugato dei flauti – hanno saputo misurarsi validamente con lo sperticato virtuosismo loro richiesto. Ancora applausi scroscianti, mentre il maestro faceva alzare in piedi meritoriamente i componenti delle varie sezioni strumentali.