Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – LXXXI Festival del Maggio Musicale Fiorentino
“MACBETH”
Tragedia lirica in quattro atti su libretto di Francesco Maria Piave e Andrea Maffei, dall’omonima tragedia di William Shakespeare.
Musica di Giuseppe Verdi
Macbeth LUCA SALSI
Banco RICCARDO ZANELLATO
Lady Macbeth VITTORIA YEO
Dama di Lady Macbeth ANTONELLA CARPENITO
Macduff FRANCESCO MELI
Malcolm RICCARDO RADOS
Domestico di Macbeth VITO LUCIANO ROBERTI
Medico ADRIANO GRAMIGNI
Sicario GIOVANNI MAZZEI
Un araldo EGIDIO MASSIMO NACCARATO
Prima apparizione NICOLÒ AYROLDI
Seconda apparizione PIETRO BECCHERONI
Terza apparizione ARIANNA FRACASSO
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Riccardo Muti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Esecuzione in forma di concerto
Firenze, 11 luglio 2018
Gran finale per l’ottantunesimo Festival del Maggio Musicale Fiorentino, che questa sera ha riproposto il “Macbeth” di Giuseppe Verdi, riportando a Firenze il maestro Riccardo Muti. Malgrado l’esecuzione si sia limitata alla sola forma di concerto, il binomio “Macbeth-Muti” rimane indubbiamente una scelta ben centrata, sintesi di un titolo e di un direttore che devono il loro esordio al capoluogo toscano. Era, infatti, la sera del 14 marzo 1847, quando al Teatro della Pergola di Firenze il pubblico scopriva per la prima volta questa grande opera verdiana, le cui differenze con la versione “francese” del 1865, stabilmente in repertorio, sono state riapprezzate proprio nell’anno del bicentenario verdiano, grazie alla memorabile idea del Maggio di restituire al “Macbeth” il suo palcoscenico d’origine. Per il debutto a Firenze di Muti si dovrà, invece, attendere il concerto col celebre pianista sovietico Svjatoslav T. Richter del 1968. Come da intervista al “Corriere Fiorentino”, erano i tempi in cui Muti pagava in due anni di rate il primo pianoforte e si apprestava a divenire direttore musicale del Maggio, incarico che ricoprì dal ’69 al ’71. Dopo cinquant’anni di affermata carriera, la città accoglie calorosamente il maestro con quella che è stata soprannominata la “Riccardo Muti week”, ricca d’incontri col pubblico e i cittadini, culminati con l’evento a Palazzo Vecchio di ieri, alla presenza del sindaco e del sovrintendente del Maggio, ma vediamolo finalmente in azione. Sulle prime, non è semplice spiegare i marcati contrasti ritmici che connotano le differenti inserzioni orchestrali, sebbene non s’impieghi molto a comprendere che tali “aritmie” sono il prodotto di uno scavo personalizzato della partitura, stratificato negli anni, volto a restituire le repentine oscillazioni degli impulsi che governano i caratteri della tragedia. I rallentamenti prima del cantabile della Lady, ad esempio, covano perfettamente la genesi di un primo delitto, così come l’indugio ritmico sui passi ascendenti degli archi fa da complice all’ombrosa contemplazione di Macbeth davanti alla camera di Duncan. Grande rilevanza è data all’espressione dei singoli strumenti, col duplice effetto di evidenziarne pregi (pulitissimo il sibilo degli archi che mantiene la tensione sulla lettura della lettera di Lady Macbeth) e difetti, limitati a un pizzicato fuori posto durante una pausa generale o a qualche incertezza nell’intervento d’arpa. Per il resto, la conduzione è imperiosa, briosa nel brindisi, dove i violini dialogano con se stessi approcciando gli abbellimenti d’inizio frase in forte per poi smorzarsi in piano, rapida nel seguire le volatine delle streghe e ancora più di rilievo nella riproduzione del notturno scozzese, in cui una peculiare distribuzione delle intensità nell’organico favorisce l’instaurarsi di un effetto straniante, con suoni più in primo piano e altri echeggianti sullo sfondo. In questa occasione, non poteva che tornare alla luce la versione integrale dell’edizione francese, saggiata in ogni dettaglio e forse un po’ impegnativa da seguire nella sua interezza. Una linea che ha peraltro rilevato il principale focus del binocolo con cui Muti guarda alla direzione, quello dei dettagli della partitura legati a coro e orchestra, con cui conferma un intenso legame. In questo senso, le sonorità turgide e magnificenti della chiusura del finale del primo atto hanno senz’altro subissato i solisti, ma anche messo in luce un coro (preparato da Lorenzo Fratini) capace di grande slancio, nondimeno abile nell’eseguire i toni affranti del “Patria oppressa” o nel sospendere in pianissimo quella nebbia che accompagna il susseguirsi dei re. Era casomai qualche passo iniziale a essere meno in sintonia con i tempi del direttore, causando qualche anticipazione di frase e puntature meno precise. Nel ruolo protagonistico, Luca Salsi sembra aver lenito la dicotomia tra l’elevato acume interpretativo e la non costante lucentezza dello strumento vocale. Rimane una certa predisposizione a ingrossare la voce, agevolata dalla frequente aggiunta della consonante sorda “h” nella presa delle frasi di forza, ma il lungo rodaggio nella parte ha oramai ridotto al minimo le sfumature nasali sulle mezze voci, limitando le difficoltà emissive a qualche acuto più intubato. Ne è uscita una prova dal fraseggio accuratamente dissezionato, inserito in parentesi liriche attente al rilascio dei suoni e supportate da un ampio spettro cromatico, particolarmente d’effetto nel repentino smorzamento di note attaccate con squillo. Rispetto al recente ingaggio ne “La battaglia di Legnano”, anche la performance di Vittoria Yeo risulta in crescendo. A suo modo, il soprano gioca a carte scoperte, dato che l’incipit piuttosto lineare ha permesso fin da subito di analizzarne la natura vocale. Si tratta di un soprano non più che lirico e anche sulle agilità ci sarebbe da discutere, poiché se gli abbellimenti sono ben risolti, la progressione della coloratura conduce spesso a semplificazioni, mentre l’esecuzione dei trilli resta perlopiù aleatoria. Manca, inoltre, un rapporto tra liricità e vocalizzi sostenuto da un maggiore equilibrio nella respirazione, ma l’interprete ha dimostrato un approfondito studio del ruolo, senza il quale la dizione non sarebbe stata così precisa, cogliendo in diverse occasioni le minuzie del fraseggio di Lady (per parlare “alla Verdi”). Questo ha permesso risultati di accresciuta rotondità nelle parti di centro in mezzo piano e anche una progressiva diminuzione della tensione in acuto, raggiungendo nel brindisi un paio di puntature davvero a fuoco, cosa che non si può dire dello sfuggente re♭ a chiusura del sonnambulismo, in cui la linea vocale era più oscillante. Nell’intersezione tra i ruoli principali, Francesco Meli (Macduff) pare dapprima concentrarsi su un sottile equilibrio tra brillantezza timbrica e volume vocale, che lo porta qua e là a disperdersi nelle scene d’insieme e a qualche suono più ingolato, cantando un po’ a risparmio fino al quarto atto. Qui, il tenore genovese scioglie qualunque riserva, schiudendo un’aria celestiale, intrisa di lamentosi affievolimenti nella discesa ai toni più gravi, che solca le opalescenti frasi di centro fino a sfoghi in acuto stentorei e sicuri sulle dinamiche in crescendo, all’altezza del pieno plauso della sala. Meno in forma il Banco di Riccardo Zanellato, dalla voce più fumosa e meno ferma dei ricordi, mentre molto buoni sono stati i contributi delle parti secondarie. Tra questi, spiccava lo scambio tra la limpida Dama di Lady Macbeth (Antonella Carpenito) e lo scuro medico di Adriano Gramigni, per continuare col determinato Malcolm di Riccardo Rados. Professionali anche gli apporti di Vito Luciano Roberti (domestico di Macbeth), Giovanni Mazzei (sicario), Egidio Massimo Naccarato (un araldo) e Nicolò Ayroldi (prima apparizione), con una particolare menzione per le voci bianche di Pietro Beccheroni e Arianna Fracasso. Al termine delle quasi quattro ore di rappresentazione (intervalli inclusi), il pubblico fiorentino scioglie senza fretta il suo più coinvolgente applauso verso l’organico e gli interpreti, mostrando particolare affetto nei confronti di Muti. Con fare disinvolto, il maestro ha quindi colto l’occasione per confermare il suo tributo a Firenze e al Maggio, ringraziando il pubblico per il suo sostegno nelle diverse “battaglie di carattere artistico” e rivolgendo il suo appello per il ritorno delle spoglie di Cherubini a Firenze, obiettivo che il direttore napoletano intenderebbe celebrare con l’esecuzione a Firenze del Requiem che lo stesso Cherubini ideò per la sua cerimonia funebre. Congedandosi, si concede un’ultima battuta: “Cherubini lo portiamo a Firenze, Dante non lo vogliamo!”. Foto Pietro Paolini/TerraProject/Contrasto.