Napoli, Teatro di San Carlo: “corsi e ricorsi storici” per la Scuola di Ballo

Teatro di San Carlo, Scuola di Ballo, anno accademico 2016-2017
“SPETTACOLO DI FINE ANNO”
Direttore Stéphane Fournial
Docenti Rossella Lo Sapio, Soimita Lupu, Alberto Montesso, Pia Russo (danza classica),
Elisabetta Testa (Storia della Danza), Arianna D’Angiò (Mimo)
“Défilé della Scuola”
Musica Hector Berlioz
Interpreti Tutti gli allievi
“Parte tecnica” ispirata al balletto “Études”
Musica Knudåge Riisager
Interpreti Tutti gli allievi
“Rapsodia”
Musica Sergej Rachmaninov
Interpreti Uomini dal III all’VIII corso
“La Bayadère”
Musica A. Ludwig Minkus
Coreografia originale Marius Petipa
Interpreti  IV, V, VI, VII, VIII corso
Pas de Deux Giuseppina Battista, Raffaele Vasto
“Grand Pas Classique”
Musica Daniel Auber
Coreografia originale  Victor Gsovsky
Interpreti Giusy D’Angelo, Emanuele Ferrentino
“Rapsodia ungherese”
Musica Franz Liszt
Interpreti Selezione di allievi
Napoli, 25 giugno 2018
Il 25 giugno è andato il scena lo spettacolo di fine anno della Scuola di Ballo del San Carlo di Napoli, momento molto atteso in quanto polo di riferimento per la formazione tersicorea nel Sud Italia.
Con una gloriosa quanto altalenante storia fatta vicende alterne, chiusure e riaperture, passaggi di testimone più o meno felici, la tormentata esistenza della Scuola di Ballo del Massimo partenopeo, com’è noto, ebbe inizio con la fondazione ufficiale sotto Gioachino Murat, il 22 gennaio del 1812, per regio decreto su progetto di Louis Henry. Indiscutibile modello diretto fu la prima Scuola di formazione professionale nell’arte della danza del mondo occidentale, ossia l’Académie dell’Opéra di Parigi, creata con gli editti del 1713 e del 1714. Dopo una prima chiusura nel 1840, la Scuola fu riattivata con l’Unità nazionale per poi chiudere definitivamente il secolo XIX nel 1868, quando il Regno d’Italia ordinò la soppressione di tutte le Scuole del Regno delle Due Sicilie per motivi economici. Dopo la seconda guerra mondiale la rifondazione fu merito della scaligera Bianca Gallizia, che ne resse le sorti per un quarto si secolo; dopo un periodo di transizione, il testimone passò alla romana Anna Razzi. Per un ulteriore venticinquennio la scuola, che versava ormai in una situazione di abbandono con soli diciannove allievi, è stata risollevata a nuovi fasti che hanno prolungato le ultime propaggini della scuola italiana di balletto, della quale la ex direttrice – ad oggi presidente onorario a vita della Scuola sancarliana – è una delle ultime testimoni.
La direzione attuale, affidata da tre anni a Stéphane Fournial, si è imposta come primo e dichiarato obiettivo l’ampliamento numerico degli allievi e quello che si può percepire, al momento, è proprio la prevalenza di questo fattore sul resto. Se, da una parte, questo rincuora gli animi circa la sopravvivenza dell’Istituzione (oggi più che florida), dall’altra solleva inevitabilmente problemi relativi agli spazi e all’organico degli insegnanti.
Gli spazi, si sa, sono stati sempre un problema storico dello stabilimento, fin dalla fondazione; un numero di maestri ancora esiguo per più di duecento allievi è invece una urgenza che, se non sarà risolta, minerà la qualità dei risultati a lungo termine. Da quest’anno sono stati fortunatamente attivati corsi esclusivamente maschili, affidati al nuovo maestro Alberto Montesso, ma è di fatto anacronostico persistere nel taglio della danza moderna. In un contesto lavorativo che non si articola solo sul grande repertorio classico, il danzatore ha la necessità di formarsi anche secondo i canoni e gli stili di oggi. I corpi necessitano di acquisire una forte base classica, ma anche di aprirsi a un linguaggio che, se non innestato con continuità didattica sulle rigidità accademiche, rischia di rimanere un elemento estraneo di difficile acquisizione in età adulta. La necessità di rispondere al gusto della coreografia e del pubblico contemporanei sono due elementi che hanno contrassegnato tutte le fasi evolutive della storia della danza, sia in ambito formativo che artistico. Tradizione e innovazione che non sembrano viaggiare su binari paralleli, a Napoli. La tradizione del grande repertorio, fatta eccezione per le scene di massa, mutila i passi a due dei virtuosismi più impegnativi (le variazioni) e recide finanche i quadri di insieme in una inspiegabile fretta di passare ad altro. L’innovazione non si percepisce se non nel ricambio di materiale umano.
In questa nuova fase di transizione, da un lungo blocco a un altro, ci vorrà di certo ancora tempo per riconoscere i risultati di una politica didattica. Quello che, però – e in tutto rispetto per l’Istituzione – lascia perplessi coloro che si apprestano a osservare con attenzione non solo i l’estetica degli allievi, ma la vita di un organismo con precise finalità formative è un messaggio che emerge chiaro e impietoso:  la volontà di cancellare velocemente il passato. Un passato recente che, è noto, ha dato lustro alla Scuola formando danzatori di livello non trascurabile (solo per citare i più recenti, Vincenzo Capezzuto, Alessando Macario, Anna Chiara Amirante, Alessandro Staiano, Claudia D’Antonio, Stanislao Capissi, Luisa Ieluzzi e altri ancora) e che, in ultimo, ha donato alle platee americane una stella come Luigi Crispino, attualmente danzatore dell’American Ballet Theatre, che il giorno successivo al diploma  è volato a New York.
Ma ricollochiamoci sulla cronaca della serata. Il programma proposto per lo spettacolo ha visto in scena l’ormai consueta rilettura di Études, di Czerny-Riisager-Lander, dopo il Défilé iniziale su musica di Hector Berlioz, mutuato dal repertorio dell’Opéra di Parigi (e in vero non eseguito alla perfezione), per poi passare alla Rapsodia su un tema di Paganini per pianoforte e orchestra di Sergej Rachmaninov affidata agli allievi uomini (dal III all’VIII corso), proseguire con un estratto dal Regno delle Ombre del balletto La Bayadère di Minkus-Petipa (discesa delle ombre ben eseguita, pas de trois, pas de deux); a seguire, il passo a due (solo adagio e coda) da Grand Pas Classique è stato affidato a Emanuele Ferrentino e Giusy D’Angelo, allieva del sesto corso, piacevole nell’aspetto ma ancora poco matura per essere avanzata a tal punto in scena. A seguire, senza soluzione di continuità in una giustapposizione di brani, la piacevole Rapsodia ungherese su musica di Franz Liszt e il gran finale con tutti gli allievi.
Canonico, da tre anni, il bianco delle divise accademiche con tutulette, per le donne, alternate solo al nero di pochi elementi per Études, in una spartana rinuncia ai costumi di scena, come alle scenografie tradizionali, rimpiazzate dalle proiezioni. Ancora una volta, nessun tableaux che l’occhio potesse ammirare per più di un secondo, vista la fretta nell’oscurare la scena dopo ciascun pezzo.
A fine spettacolo, quest’anno, non sono stati annunciati diplomati e la cosa ha destato perplessità, anche se non è prassi nuova. Giusto duecento anni fa, nel 1818, la commissione d’esame delle Reali Scuole di Ballo del Teatro di San Carlo, composta da nomi del calibro di Louis Duport, Louis Henry, Armand Vestris, Antonio Gioja, Signora Naley Neuville, fu concorde nel sospendere il giudizio relativo alla classificazione delle ‘piazze’ spettanti a ciascuno allievo (ovvero ai ruoli che avrebbero ricoperto negli spettacoli del Teatro), per il fatto che nessuno aveva ancora raggiunto il livello delle classi indicate nel regolamento. Pertanto si pospose all’anno successivo la classificazione degli allievi, nella speranza di un profitto migliore. Corsi e ricorsi storici, insomma, ma stavolta non è andata proprio così, in quanto la stragrande maggioranza degli allievi del settimo e ottavo corso sono stati “dimessi” e gli unici che sono riusciti a conseguire il diploma hanno ricevuto questo titolo con votazione minima. La perplessità diventa certezza, dinanzi a una curiosa gestione di giovani che, sia pure appartenenti ad annate poco felici, non sono stati fermati nel corso dei due anni precedenti. I corsi superiori presuppongono un programma di studi concluso e lo studio dei virtuosismi, per cui la possibilità di verificare la predisposizione al professionismo non si manifesta al termine del percorso ma è certezza già molto tempo prima. La danza è un’arte così dura che due anni in più o in meno possono pesantemente condizionare le scelte di vita degli adolescenti. Senza dubbio un lavoro su un numero così alto di corpi non rende giustizia alle capacità degli insegnanti e le doppie audizioni annue per un rapido cambio di platea non sembrano aver portato in scena una massa di fisici migliori, rispetto al passato. E questo dispiace. Probabilmente la fretta di vedere i risultati di un organico nuovo ha proiettato la Scuola su un terreno scivoloso, perché l’impressione (nel senso di sentimento che desta ammirazione) suscitata dalle masse di allievi è tale in principio, ma si converte quasi subito nella ricerca di quella bellezza che, nell’insieme, non si riesce ancora a percepire. Le individualità sembrano essere soffocate da un meccanismo di gestione di cui non si riesce a scrutare l’ispirazione.
Ci auguriamo che a questa percezione faccia seguito un futuro radioso e che la situazione evolva in bene, perché le visioni esterne non hanno la finalità di demolire il lavoro altrui, ma di comunicare cose che, a volte, dall’interno non si percepiscono come tali. Ecco che, però, ancora una volta ci viene in soccorso la storia – per chi la conosce o se ne interessa. È bene sapere, infatti, che appena dopo la fondazione, il più grande impresario della storia del San Carlo (e non solo),  Domenico Barbaja, utilizzava gli allievi delle Reali Scuole di Ballo in gran massa per alleggerire le spese del Teatro, in modo da non dover pagare troppi professionisti e da avere un alto livello di corifei in casa. La sua morte coincise, nel 1840, con la chiusura dello stabilimento, strettamente legato a quel tipo di gestione impresariale. Il caso non voglia che la storia possa ripetersi nella situazione attuale, perché i fasti dei tempi di Barbaja , ad oggi, non esistono più. Cui prodest?  Foto Francesco Squeglia