Verona, Teatro Filarmonico – Stagione d’Opera 2017-18
“LE NOZZE DI FIGARO”
Commedia per musica in quattro atti, libretto di Lorenzo Da Ponte.
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Conte di Almaviva CHRISTIAN SENN
Contessa FRANCESCA SASSU
Susanna HASMIK TOROSYAN
Figaro RICCARDO FASSI
Cherubino RAFFAELLA LUPINACCI
Marcellina FRANCESCA PAOLA GERETTO
Bartolo BRUNO PRATICÒ
Basilio BRUNO LAZZARETTI
Don Curzio PAOLO ANTOGNETTI
Barbarina LARA LAGNI
Antonio DARIO GIORGELÈ
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore Sesto Quatrini
Maestro del Coro Vito Lombardi
Regia Mario Martone ripresa da Raffaele Di Florio
Scene Sergio Tramonti
Costumi Ursula Patzak
Coreografia Anna Redi
Lighting Design Pasquale Mari ripreso da Fiammetta Baldiserri
Allestimento del Teatro San Carlo di Napoli
Verona, 08 aprile 2018
“Le nozze di Figaro” non sono un’opera, ma un vero monumento, patrimonio dell’umanità, e, come su ogni monumento che si rispetti, spesso vi cade un velo di polvere, usura, talvolta anche muffa. Così va la vita. La messa in scena di Mario Martone – ormai dodicenne – sicuramente ha segnato le regie dell’opera: tradizionale e innovativa allo stesso tempo, essa non manca ancor oggi di fare presa sul grande pubblico, ma già avverte i segni del tempo, soprattutto agli occhi di chi conosce questa e altre sue epigoni. Quella patina di troppo, allora, tocca ai musicisti toglierla, e il cast che il Filarmonico di Verona ha messo in piedi per questa ripresa ha per lo meno cinque ottime ragioni per riascoltare il primo tassello della celebre trilogia mozartiana. Prima, in puro ordine cronologico, è la conduzione del Maestro Sesto Quatrini: incalzante, precisissima, si alterna e integra perfettamente al cembalo dei recitativi, oltre che tamponare le, per fortuna non frequenti, sbavature dei cantanti. Cantanti trascinati da un terzetto davvero di spessore: se la Susanna di Hasmik Torosyan è adorabilmente colorita, agile e divertente; il mezzosoprano Raffaella Lupinacci nella parte di Cherubino rivela duttilità vocale, controllo e intensità; il fascino di Riccardo Fassi nel ruolo di Figaro è indiscutibile, e indiscutibilmente legato alla sua interpretazione ricca di sfumature; ma su tutti questi quattro bravi professionisti spicca la classe, la sensualità e la sicurezza vocale di Francesca Sassu, artista che da un po’ teniamo d’occhio e che ormai deve essere considerata più di una promessa del nostro belcanto: “Porgi amor qualche ristoro” e “Dove sono i bei momenti” risultano senza dubbio i numeri musicali più coinvolgenti dello spettacolo – e non me ne vogliano Fassi e Lupinacci, pure ottimi in “Non più andrai” e “Voi che sapete”: il timbro tondo e aggraziato della Sassu trascina lo spettatore al di là della semplice godibilità teatrale (che, va detto, tutto il cast stimola con abilità da attori quasi di prosa, più che da cantanti d’opera); dalla Contessa non vorremmo mai smettere di udire una tanto soave interpretazione, incorniciata ed esaltata dagli altri bravi interpreti di cui sopra. Tra il resto del cast, ahimè, brilla solo la brava Francesca Paola Geretto – una apprezzabile Marcellina -, mentre dispiace vedere due “volponi” come Bruno Praticò e Bruno Lazzaretti sempre più impacciati in due interpretazioni dimenticabili, che solo la naturalezza ed esperienza scenica dei due può risollevare. Infine Christian Senn, buon Almaviva, dà tutto il meglio di sé nei primi due atti, dimostrando fatica vocale negli ultimi. Peccato. L’insieme che si ha è quello di un’opera ben cantata, ben diretta, ben messa in scena, ma senza quel guizzo in più che la renda indimenticabile – a parte la già citata Rosina di Francesca Sassu. Anzi, a ben pensarci, qualcosa c’è: la diffusa e costante maleducazione del pubblico, che porta, all’inizio del terzo atto, anche il Maestro Quatrini a fermarsi per attendere un silenzio e un’ordine in sala più che dovuto a qualsivoglia artista. E d’accordo che siamo di domenica, che il pubblico è turistico (sfilano infradito e tute ginniche in foyer, accompagnati da cadenze inconfondibilmente oltreoceaniche), che le poltrone sono di leggendaria scomodità, ma, a chi ama davvero quest’arte, parte un’inevitabile scarica di bile di fronte a un direttore d’orchestra impedito nel suo lavoro dalle noncuranze dell’uditorio. I mercanti al tempio non fecero una gran bella figura, di fronte alla Storia: purtroppo certo “popolo pagante” non se lo ricorda; o, forse, è la Storia che non ci parlerà mai di loro. E questo mi rincuora. Foto Ennevi per Fondazione Arena