Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2017-2018
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Andrea Marcon
Soprano Silvia Frigato
Contralto Francesca Ascioti
Domenico Turi: “Come foglie innocenti”, preghiera per orchestra
Franz Schubert: Sinfonia n. 4 in do minore D 417 “Tragica”
Giovanni Battista Pergolesi: “Stabat Mater” per soprano, contralto, archi e basso continuo Venezia, 30 marzo 2018
Ottavo appuntamento della Stagione Sinfonica del Teatro La Fenice nella sera del Venerdì Santo: tra i titoli in programma spicca lo Stabat Mater di Pergolesi, da sempre ritenuto un capolavoro assoluto nell’ambito della musica sacra, che sa toccare le corde più profonde del pubblico. Ma altri erano gli aspetti particolarmente interessanti di questo concerto, come ha tenuto a sottolineare di persona il sovintendente/direttore artistico Fortunato Ortombina: innanzi tutto la presentazione, in prima assoluta, del brano di un giovane compositore (Come foglie innocenti di Domenico Turi), una commissione nell’ambito del progetto “Nuova musica alla Fenice”, che ha il sostegno della Fondazione Amici della Fenice e lo speciale contributo di Nicola Giol; inoltre il debutto alla Fenice del maestro Andrea Marcon, uno specialista del repertorio barocco, grande divulgatore, anche all’estero, della musica veneziana; infine la dedica della serata a José Antonio Abreu, venezuelano di origine italiana – recentemente scomparso – creatore nel Paese sudamericano del sistema educativo-didattico, grazie al quale si sono formati musicisti come Gustavo Dudamel e Diego Matheuz, quest’ultimo, in anni recenti, direttore principale proprio nel teatro veneziano.
Di sicura presa sul pubblico soprattutto per la bellezza del suono e il solido impianto tonale, Come foglie innocenti ha confermato il valore del giovane compositore pugliese Domenico Turi, tenacemente alla ricerca di una propria strada, lontana da mode e sperimentalismi, a lui poco congeniali. La breve composizione, che per certi aspetti appare legata alla tradizione romantica mitteleuropea, vuol essere – per citare le parole dell’autore stesso – “un momento di sospensione, di riflessione, di preghiera. In una società dedita solo a correre senza direzione, senza senso, si è perso il contatto con la natura, con la vita, con il respiro stesso. Troppe sono le vite che cadono e si spengono senza l’attenzione che meritano, senza amore e senza rispetto. Come foglie innocenti è solo un pensiero, spero contagioso”. Impeccabile la prestazione dell’orchestra, sapientemente guidata da Andrea Marcon, nell’affrontare questa quasi aforistica preghiera, che inizia con il rullare dei timpani, su cui svetta la pulsazione delle trombe, culminante in un vero grido di dolore – che non può non evocare Munch –, per poi proseguire, tramite una volatina del flauto, con un’invocazione dal tono pacato – tra il sogno e l’elegia –, dove prevale l’assolo dei legni e quindi del corno, dopodiché si stende il morbido tappeto sonoro degli archi, armonicamente ricercato, fino alla conclusione in morendo.
Il secondo pezzo in programma – la Quarta sinfonia di Schubert – costituisce un’ulteriore tappa nell’itinerario, che si va svolgendo, attraverso la produzione sinfonica del sommo maestro viennese. Nella partitura, ultimata alla fine di aprile del 1816, da uno Schubert, poco più che adolescente, ancora alla ricerca di una propria cifra stilistica, si coglie – diversamente dalle sinfonie precedenti, legate ancora ad Haydn e Mozart – l’influenza del modello beethoveniano con la sua accesa drammaticità, come attesta la tonalità di do minore – la stessa della Quinta del Maestro di Bonn –, insieme al potenziamento dell’organico orchestrale e all’aggettivo “Tragica”, posto dall’autore sul frontespizio. Eppure in tutto questo molta critica ravvisa qualcosa di velleitario: il piglio è talora virile ed eroico, ma non si può parlare di “tragicità” nel senso beethoveniamo di titanica lotta della Volontà contro il Destino, in quanto la tensione interna al discorso musicale si limita ad una contrapposizione, di ordine più formale che sostanziale, tra modo minore e modo maggiore e a modulazioni abbastanza imprevedibili tra tonalità, anche lontane, secondo un procedimento peculiare dello stile di Schubert. In ogni caso l’interpretazione da parte di Andrea Marcon ci è sembrata decisamente orientata verso un’accentuazione del carattere tragico di questo lavoro, di cui ha reso un’esecuzione particolarmente vigorosa nel suono e nell’accento, marcando, tra l’altro, i contrasti timbrici tra archi e fiati. Carica di pathos drammatico, decisamente mesta e grave, nel primo movimento, in forma-sonata, è risultata l’introduzione, cui è seguito con particolare slancio il primo tema in do minore, la cui cellula iniziale (tre note ascendenti) torna anche altrove. Analogamente marcata, nell’Andante – che rivela una forma tripartita, che si ripete variata – è apparsa l’opposizione tra la sezione lirico-melodica (la bemolle maggiore), e quella agitata (fa minore: le tre note ascendenti). Il carattere inquieto e concitato si è jmposto anche nel Menuetto e nel quarto movimento fino al grandioso finale.
La seconda parte del concerto era occupata – come si è detto – dal pezzo sacro di Pergolesi. Nato nel 1710 a Jesi nelle Marche e formatosi musicalmente a Napoli, il geniale musicista iniziava, nel 1731, la propria attività compositiva – dedicata soprattutto alla produzione sacra ed operistica –, che doveva durare solo cinque anni: di salute cagionevole, Pergolesi morirà, appena ventiseienne, nel 1736, a Pozzuoli. Tra le ultime composizioni si segnala lo Stabat Mater, scritto su incarico della nobile Confraternita dei Cavalieri della Vergine dei Dolori, che intendeva eseguirlo in sostituzione dello Stabat Mater di Scarlatti. Rispetto agli elementi del tradizionale stile liturgico, Pergolesi fece prevalere nel suo Stabat Mater moduli espressivi desunti dal teatro musicale dell’epoca, dando origine, in molti casi, a brani caratterizzati da un’espressività sentimentale, ben diversa dal carattere ieratico sotteso alla tradizionale forma stilistica “severa”. I brani in “stile severo” sono sostanzialmente solo due: il “Fac ut ardeat” e l’”Amen” conclusivo; la maggior parte del lavoro è – come si è detto – di derivazione operistica, intessuto com’è di arie e duetti, volti all’espressione degli affetti, prevalentemente improntati alla malinconia: nella partitura prevale il modo minore, mentre sono ricorrenti le dissonanze, ad accentuare la profonda, lacerante mestizia. Equilibrata è apparsa la lettura proposta dal maestro trevigiano, che è riuscito a far convivere in modo coerente gli aspetti anche contrastanti di questo capolavoro, per quanto il suono dell’organico strumentale – certamente in linea con le esigenze stilistiche, che non prevedono l’uso del vibrato negli archi – abbia talora rivelato un’eccessiva secchezza, e le voci – soprattutto il soprano – non abbiano saputo trovare sempre il giusto accento, il colore adeguato alla sacralità del testo. Successo, comunque, pieno e fragoroso.