Oggi 8 aprile 2018 ricorre il centosettantesimo anniversario della morte di Gaetano Donizetti (Bergamo, 29 novembre 1797 – Bergamo, 8 aprile 1848). Per ricordarlo abbiamo deciso di proporre, al posto delle solite guide all’ascolto delle opere più famose, il primo paragrafo, intitolato I difficili esordi, del capitolo a lui dedicato del mio libro Casta Diva (Il teatro musicale in Europa dall’età rossiniana alla seconda metà dell’Ottocento, pubblicato di recente dalla Casa Musicale Eco di Monza alla quale vanno i nostri ringraziamenti per la gentile concessione.
I difficili esordi
Nonostante si fosse cimentato nella composizione di opere abbastanza giovane, non fu facile per Domenico Gaetano Maria Donizetti affermarsi nel mondo teatrale; non gli mancarono, infatti, delusioni e momenti di depressione, confortati, tuttavia, anche da grandi successi di opere che continuano ad imporre il suo nome nei più importanti teatri italiani ed esteri. Durante il periodo di duro apprendistato (1816-1818) a Bologna con Padre Martini, caratterizzato da estenuanti esercitazioni nel contrappunto e nella fuga, ma che gli permise di sviluppare una buona conoscenza dei fugati tipici dei grandiosi finali di Messe e degli Oratori, Donizetti si perfezionò nella tecnica utile a comporre i concertati, brani nei quali il Bergamasco primeggiò.
Al periodo bolognese è legata, oltre all’Olimpiade e a L’ira di Achille su testi di Metastasio e mai rappresentate, la composizione di Pigmalione che, a differenza delle altre due opere, calcò le scene teatrali nel 1960 a 144 anni dalla sua stesura per l’inaugurazione del Teatro delle Novità di Bergamo.
Pigmalione, una cantata scenica in 1 atto per tenore e soprano tratta da un lavoro di J. J. Rousseau e basata su un adattamento che Antonio Simone Sografi aveva realizzato per Giovanni Batista Cimador, parla del cieco amore di Pigmalione, re di Creta, per una statua da lui scolpita e che rappresentava il suo ideale di bellezza femminile. Tormentato da questo folle amore, chiede a Venere di dare un soffio di vita alla statua e, grazie all’intervento della dea, la statua si trasforma in una bella donna, Galatea.
In questa breve opera sono presenti in nuce tutti i temi della futura poetica donizettiana: l’indagine psicologica, la solitudine, l’amore come ultima sublimazione della sofferenza umana. Pigmalione qui non è più un eroe mitico, ma una persona che chiede un miracolo che può trovare concreta realizzazione romanticamente nell’amore capace, alla fine, di animare la pietra. Anche la musica, nonostante l’inesperienza, precorre alcune tematiche della produzione futura. La partitura, in cui si sente l’influenza del classicismo gluckiano negli ampi recitativi e di Mozart nella concisione espressiva dell’aria, rivela i primi segni di un’indagine psicologica soprattutto nell’aria, Inclito, dubbioso mirarla vorrei, dove il canto, caratterizzato da un ampio disegno di larghi intervalli, culmina in una dissonanza che sembra esprimere l’agitazione interiore, lo stupore e l’incredulità di fronte al lento animarsi della statua. Curata appare anche la strumentazione con agitate figurazioni degli archi e il tema affidato al flauto che assume una nuova forma.
Nel 1819 finalmente arrivò l’occasione per Donizetti di confrontarsi con il teatro grazie ai buoni auspici di Mayr e dell’agente teatrale, oltreché librettista, Bartolomeo Merelli, suo amico d’infanzia, i quali non faticarono molto a convincere l’impresario del Teatro San Luca appena restaurato, il siciliano Paolo Zancla, a stipulare un contratto con il giovane operista di modeste pretese.
Il 19 novembre 1819 andò in scena Enrico di Borgogna il cui soggetto fu tratto da Merelli dal Der Graf von Burgund di August von Kotzebue (Vienna, 1795). L’opera semiseria in due atti ha come protagonista Enrico di Borgogna il quale, mentre si trova in esilio, apprende che è morto l’assassino di suo padre e suo figlio Guido si è impadronito del governo del ducato. A questa notizia, sia per vendicare il padre sia per riprendere il suo posto legittimo sia per rivedere e sposare Elisa, la donna da lui amata, Enrico con un gruppo di uomini rimastigli fedeli giunge in città appena in tempo per evitare che si celebrino le nozze tra Guido ed Elisa. La vicenda si conclude con la sconfitta dell’usurpatore e il ricongiungimento di Elisa con Enrico.
In questa partitura, nonostante sia evidente il modello rossiniano per la coloratura del canto e per il gran numero di sestine soprattutto nel rondò di Enrico Mentre mi brilli intorno, si rivela già la personalità di Donizetti nel terzetto alla fine della prima scena e nel finale caratterizzato dalla forza espressiva dei concertati; non mancano, inoltre, le future tematiche romantiche come il sentimento di vendetta legittimato dal bisogno di liberarsi dalla tirannia come canta il popolo nel Finale dell’opera Viva, Enrico, ai tiranni d’esempio; la fedeltà al giuramento d’amore e il ritratto umano e comprensivo della donna che sarà caratteristica delle opere future donizettiane. L’opera, alla sua rappresentazione, non suscitò molto entusiasmo come si evince dal resoconto della «Gazzetta privilegiata di Venezia»:
Spettacolo superbo per il restauro del Teatro Novello, se non nuovo il cosiddetto poeta, nuovo affatto il compositore che, di buon talento provvisto si cimenta ora per la prima volta in questi ardui lavori[1].
A distanza di un mese dalla rappresentazione di Enrico di Borgogna, con la stessa compagnia di interpreti andò in scena Una follia, una farsa in un atto consistente in una rivisitazione, fatta da Merelli, di un lavoro del 1813 di Andrea Leone Tottola per la musica di Giacomo Cordella. Qui compare già il tema della pazzia, caro a Donizetti, ma, essendo andata perduta la partitura, non si può sapere come musicalmente il compositore bergamasco abbia reso questa tematica tipica delle opere romantiche.
Per la stagione di carnevale del 1819 al Teatro Vecchio di Mantova, sempre in collaborazione con Merelli, Donizetti compose Le nozze in villa in due atti dal Die Deutscen Kleinstadter di August von Kotzebue. Protagonista di questa divertente storiella è Sabina, una giovane corteggiata dal ricco albergatore Claudio e dal maestro del villaggio Trifoglio che sembra ben accetto dal padre Petronio. Trifoglio, però, rinuncia alla giovane quando viene a conoscenza della strana dote di Sabina, consistente in 58 parrucche, in un pallone aerostatico e in 6 dozzine di occhiali, lasciando, così, via libera a Claudio.
In questo lavoro, che si rifà al cliché dell’opera buffa napoletana spicca il terzetto di apertura dell’atto secondo per la stretta tipicamente donizettiana. La première fu un clamoroso insuccesso di cui il compositore si sarebbe ricordato per molti anni, ma molti pezzi sono finiti in altri lavori come la cabaletta dell’aria finale che, divisa in due sezioni, è stata riutilizzata per Il falegname di Livonia e per La lettera anonima, mentre una Scena ed aria con coro confluì ne I piccioli virtuosi ambulanti.
Il periodo veneziano si conclude con l’opera Il falegname di Livonia ossia Pietro il Grande, Czar delle Russie, andata in scena al San Samuele il 26 dicembre 1819 e tratta dall’omonima commedia di Alexandre Dumas padre portata sulla scena veneziana con successo dalla compagnia comica Vestrini Venier; nello stesso anno era stata rappresentata alla Scala un’opera dal soggetto simile scritta da Romani per Giovanni Pacini. Il libretto, che non si discosta dall’intreccio di Romani, fu scritto dal marchese Gherardo Bevilacqua Aldobrandini il quale vi aggiunse una Prefazione consistente in uno strano sermone che l’Opera fa del Romanticismo; in essa si legge, fra l’altro:
“Non occuparti di leggermi con attenzione, ma piuttosto contentati di sentirmi in Teatro dove forse i pregi della Musica, e di chi la eseguisce, potranno vestirmi di non spiacevoli qualità, e rendermi meno indegno del tuo compatimento”.
La vicenda in 2 atti è ambientata in un luogo non ben precisato della provincia di Livonia dove vive il falegname Carlo innamorato di Annetta, amica della padrona della taverna, Madame Fritz. Un giorno, mentre Carlo sta discutendo con l’usuraio intenzionato ad ingannare Annetta sul valore di un braccialetto, nella taverna fanno il loro ingresso lo zar Pietro e la moglie Caterina; essi, che stanno cercando un nipote della zarina scomparso, fanno delle domande intorno ai suoi natali a Carlo che risponde in modo vago. Quando, però, un Magistrato accusa Carlo di essere di ignote origini, Madame Fritz mostra una vecchia lettera dove si afferma che il giovane è Carlo Stravinski, figlio del fratello della zarina. Egli è subito riconosciuto dagli zii che gli concedono di sposare Annetta, mentre il popolo acclama alla generosità della coppia imperiale.
Dopo una Sinfonia in 2 movimenti (Moderato e Presto) scritta nella forma di sonatina, un coro presenta i due innamorati e inneggia all’amore affermando che non c’è differenza tra l’amore sorto in città e quello in campagna. Ecco i due giovani esprimere il loro amore, prima nell’aria di Carlo, Cara vezzosa immagine, e, poi, nel duettino Amor! pietoso amor! L’inciso di Firmal È l’interesse al mondo conduce alla brillante stretta Alla caccia vi destin le trombe. Una parodia della declamazione rossiniana fa capolino, sempre nel primo atto, nell’aria di Madama Fritz, Qual ardire, qual brando ignudo, mentre lo stile rossiniano ritorna nella vocalità dello zar abbondante di infiorettature belcantistiche. Del secondo atto sono degni di nota il sestetto Ah, qual colpo nel quale il modello rossiniano appare con maggiore evidenza, e l’aria, coro e rondò, Il dolce nome e tenero, di Carlo e In questo estremo amplesso di Madama Fritz. L’opera riscosse un discreto successo dimostrato dal fatto che per un anno apparve nei cartelloni di Verona, Padova e Bologna dove fu definita melodramma burlesco e segna inoltre la fine del duro periodo di apprendistato; nel giro di qualche anno, infatti, sarebbe esploso il genio donizettiano.
[1]L’articolo è citato in E. Saracino, Invito all’ascolto di Donizetti, Milano, Mursia, 1984 p. 74.