Parma, Teatro Regio – Stagione d’Opera 2017-18
“TOSCA”
Dramma in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal dramma omonimo di Victorien Sardou.
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca SAIOA HERNANDEZ
Mario Cavaradossi MIGRAN AGADZHANYAN
Il barone Scarpia ANGELO VECCIA
Cesare Angelotti LUCIANO LEONI
Il sagrestano ARMANDO GABBA
Spoletta LUCA CASALIN
Sciarrone NICOLÒ CERIANI
Un pastore CARLA COTTINI
Un carceriere ROBERTO SCANDURA
Orchestra Filarmonica Italiana
Coro del Teatro Regio di Parma
Coro di voci bianche della Corale “Giuseppe Verdi” di Parma
Direttore Fabrizio Maria Carminati
Maestro del Coro Martino Faggiani
Maestro del Coro di voci bianche Beniamina Carretta
Regia Joseph Franconi Lee da un’idea di Alberto Fassini
Scene e costumi William Orlandi
Luci Roberto Venturi
Allestimento del Teatro Regio di Parma
Parma, 28 aprile 2018
Fra tutte le opere di Puccini “Tosca” (ancor prima che “La Bohème”) è la più iconica, sarebbe a dire quella la cui immagine si è maggiormente impressa nella coscienza collettiva – un destino che, secondo chi scrive, condivide solamente con “La Traviata” e “Don Giovanni”: le regie di queste tre opere hanno il più che arduo compito di innovare nel solco della tradizione, di stupirci senza tradire pubblico, musicista e librettista, di darci da pensare senza allontanarci troppo dal puro godimento dell’opera. È anche per questo che le regie di “Tosca”, soprattutto, non puntano mai ad un sostanziale stravolgimento dell’ambientazione o della caraterizzazione dei personaggi – per lo meno, non le buone regie; inoltre, il sapiente libretto di Giacosa e Illica inquadra con tanta precisione storica la vicenda (il riferimento alla Battaglia di Marengo del secondo atto ne è la prova più immediata) da non consentire troppa libertà. Fino a qui, lo spettacolo, che attualmente si recita al Regio di Parma, sembra inserirsi in un fertile solco di rispetto; tuttavia l’apparato di allestimento (il regista Joseph Franconi Lee e lo scenografo e costumista William Orlandi) sembrano da una parte non disporre di molti mezzi, dall’altra non aver letto con attenzione il libretto, giacché ci propongono una scena che sembra montata con elementi casuali (una scalinata, delle pareti a specchio, delle quinte dipinte in toni di grigio, troppo drammaticamente simili a delle fotocopie gigantesche di opere del barocco romano, alcuni elementi di attrezzeria standard, addirittura un’entrata fuori misura nel terzo atto, che obbliga tutti gli attori ad abbassarsi per non picchiarvi la fronte) e una regia che più di una volta sfida il senso del ridicolo – ecco qualche esempio: Scarpia a Floria: “Così accasciata?” mentre la Tosca è ritta in piedi; lei a lui “Non toccarmi, demonio!” ma Scarpia è dalla parte opposta della scena; “Ti soffoca il sangue?” chiede Tosca a Scarpia morente, ma qui lei lo accoltella al fianco basso, il sangue non lo soffocherebbe neppure volendo; ma anche l’Angelotti all’inizio invoca “la colonna…” che in scena non c’è, tuttavia. Perché una messinscena tanto fallace per un’opera e una sede tanto prestigiose? Ahimé non avremo risposte, a queste domande, giacché anche le spiegazioni che sul materiale informativo vengono fornite (e che non andrebbe consultato per ottenere risposte, ma per puro diletto, poiché una buona regia pone domande e fornisce risposte per se stessa, senza bisogno di “note”) suonano come un omaggio ad Alberto Fassini, regista scomparso ormai da tredici anni, allievo di Visconti e Maestro di Franconi Lee, che, a sua volta, ascrive all’estro di Fassini la non meglio specificata “idea” dell’allestimento. Non trovando appagamento teatrale, non ci resta che volgerci all’apparato musicale per cercare consolazione: la direzione, buona ma discontinua, del Maestro Fabrizio Maria Carminati, le ottime prove di entrambi i cori (plausi quindi ai Maestri Martino Faggiani e Beniamina Carretta), e il Cavaradossi del tenore armeno Migran Agadzhanyan. Il cantante, a malapena venticinquenne, cavallo di razza del Mariinskij, debutta in Italia certo in un ruolo non facile, ma è pienamente all’altezza, dimostrando una voce tonda e robusta, che non delude negli acuti, oltre che un’ottima dizione; la sua “Recondita armonia” incanta; gli si perdona anche qualche spigolo sovrainterpretativo, che negli anni avrà tutto il tempo di smussare. Si riconferma una brava interprete del repertorio verista anche la spagnola Saioa Hernandez: non delude il suo timbro spinto, dalle venature metalliche, che abbiamo già spesso apprezzato in Italia (una volta su tutte: la splendida “Wally” modenese dell’anno passato); purtroppo, proprio sul “Vissi d’arte” sembra mancare di respiro, ma è dettaglio trascurabile, se si pensa in generale alla prova di cui si fa protagonista: si dimenticano talvolta, grazie al suo fascino, anche le mancanze registiche di cui sopra. Non ci suona particolarmente riuscito, invece, lo Scarpia di Angelo Veccia: soprattutto nella zona acuta baritonale si mostra un po’ affaticato, mentre da un punto di vista scenico sicuramente traspare la sua esperienza più che ventennale. Tra i personaggi secondari, spicca senza dubbio, invece il sagrestano di Armando Gabba: il baritono di Parma, che negli ultimi anni è stato adottato dalla Fenice veneziana, convince del tutto, costruendo e caratterizzando un ruolo piccolo ma sapido, e sostenendolo con una buona vocalità dai bassi pieni. Piacevolissima pure la voce da soprano di Carla Cottini, che regala un momento di freschezza con la canzone del pastorello del terzo atto. La sensazione generale è dunque quella di uno scollamento tra professionisti musicali – generalmente ben più che all’altezza – e allestimento raffazzonato, che una piazza importante come quella parmense non dovrebbe meritare.Foto Roberto Ricci