“Gloriana” al Teatro Real di Madrid

Madrid, Teatro Real, Temporada 2017-2018
“GLORIANA”
Opera in tre atti su libretto di William Plomer
Musica Benjamin Britten
La regina Elisabetta I ANNA CATERINA ANTONACCI
Robert Devereux LEONARDO CAPALBO
Frances PAULA MURRIHY
Lord Mountjoy DUNCAN ROCK
Penelope SOPHIE BEVAN
Sir Robert Cecil LEIGH MELROSE
Sir Walter Raleigh DAVID SOAR
Henry Cuffe BENEDICT NELSON
Una dama di compagnia ELENA COPONS
Un cantante cieco JAMES CRESWELL
Lo spirito della maschera SAM FURNESS
Il banditore ÁLEX SANMARTÍ
Il notaio di Norwich SCOTT WILDE
Un maggiordomo ITXARO MENTXAKA
Il maestro di cerimonie GERARDO LÓPEZ
Coro y Orquesta Titulares del Teatro Real
Coro di voci bianche Pequeños Cantores de la JORCAM
Direttore Ivor Bolton
Maestro del coro Andrés Máspero
Direttore del coro di voci bianche Ana González
Regia David McVicar
Scene Robert Jones
Costumi Brigitte Reiffenstuel
Luci Adam Silverman
Coreografie Colm Seery
Nuova produzione del Teatro Real di Madrid in coproduzione con English National Opera e Vlaamse Opera
Madrid, 24 aprile 2018

Se si commettesse l’errore di considerare Gloriana alla stregua di come si analizza o ascolta il Roberto Devereux di Donizetti, libretto e partitura dell’opera di Britten potrebbero essere tacciati di disorganicità, addirittura di incongruenza drammaturgica, giacché la vicenda di amore e presunto tradimento del Conte di Essex nei confronti di Elisabetta è quasi tutta concentrata nel III atto, come se i primi due fossero soltanto un’introduzione manieristica sull’ambiente di corte e i suoi personaggi, molto decorativi ma drammaticamente scialbi. Ovviamente non può essere così: l’opera si intitola Gloriana perché indaga le multiformi manifestazioni della monarchia al femminile, emblema della gloria personale di Elisabetta I d’Inghilterra. Lo spettatore assiste nei vari segmenti dell’opera a una tragica involuzione: nel I atto la regina è in armonia con il suo regno, gioisce dei piaceri più semplici insieme ai suoi sudditi e si compiace dell’ammirazione galante di un giovane e valente aristocratico; nel II si trasforma già nella tiranna capricciosa e arrogante; nel III è la donna decadente, sofferente, sconfitta dalla passione al punto da rinnegare ogni sentimento, incrudelire e fingere ancora di credere nella coerenza della giustizia dopo aver condannato a morte l’amante. Libretto e musica risultano tanto originali e ben strutturati quanto dovettero apparire scandalosi e sgradevoli al pubblico di gala, del governo e della diplomazia inglesi, alla prima assoluta dell’8 giugno 1953 al Covent Garden di Londra; coloro che credevano di assistere a una celebrazione della monarchia britannica, che avrebbe dovuto collegare la gloria del secolo di Elisabetta I, Drake, Shakespeare e Bacon a quella attuale di Elisabetta II si confrontarono invece con una amara raffigurazione della debolezza, della parzialità e della meschinità del potere. Lo stesso Lord Harewood, il nobile amico di Britten che aveva suggerito precisamente questo soggetto quale nuova “opera nazionale inglese”, dichiarò che quella première rientrasse nel catalogo dei grandi disastri della storia dell’opera. Non un fiasco manifesto – non ci fu alcuna rimostranza aperta da parte del pubblico – ma un’ostilità fredda e silente fece sì che Gloriana non si rappresentasse più alla Royal Opera House fino al 2013, esattamente sessant’anni dopo (quando ancora regnava la sovrana che nel 1953 aveva graziosamente concesso il suo placet alla rappresentazione); e sono dovuti trascorrere altri cinque anni perché essa giungesse per la prima volta a Madrid (quando ancora sul suolo inglese regna la medesima sovrana). Certamente, il Teatro Real propone un altro spettacolo straordinario, apprezzatissimo dal pubblico, e si conferma più che all’altezza degli intenti celebrativi del proprio bicentenario di storia. L’anno scorso era andato in scena un Billy Budd che continua a ottenere riconoscimenti quale miglior allestimento europeo del 2017; e adesso giungono nove rappresentazioni della successiva partitura di Britten, Gloriana, con una doppia compagnia cantante, la direzione musicale “tutelare” di Ivor Bolton (direttore principale del Real, già responsabile della concertazione del Billy Budd) e la regia di un altro artista inglese di grande intelligenza teatrale come David McVicar.
La mimica facciale di Ivor Bolton, tanto marcata, è soprattutto veicolo della ricerca di espressività: dirige con le sole mani, pronto a dare gli attacchi con gestualità rude e improvvisa; a osservare meglio, però, si nota come gli indici del direttore, sempre puntati sugli strumentisti, si trasformino in un disegno ricamato nell’aria con la più tenue delicatezza, in grado di ottenere magnifici effetti di pianissimo e di variazione dei colori. Esigentissimo nella prova generale (realizzata il 9 aprile), pronto a correggere qualunque parametro della propria impostazione, Bolton giunge a questa Gloriana senza ricercare affannosamente analogie o paralleli con le opere di Britten più conosciute e da lui già dirette al Teatro Real; accoglie piuttosto questa partitura e la porge in tutta la sua nuda originalità e ingannevole semplicità: fin dal preludio al I atto.
Sulla scena dominano la figura e la voce di Anna Caterina Antonacci: la sua prima apparizione, con grande parrucca rossa e volto imbiancato dal trucco, è un ammiccamento alla pellicola cinematografica con Bette Davis, ma appena inizia a cantare si profila la sua originale e forte personalità. A trentadue anni dal suo debutto aretino (come mezzosoprano), questa cantante vanta un’emissione ferma e omogenea, capace di reggere i massicci volumi orchestrali senza mostrare segni di stanchezza; e poi, la recitazione perfetta, la dizione accurata e lo studio di tutti i caratteri della sovrana – da quelli algidi dell’ufficialità a quelli appassionati dell’intimità – concorrono a creare un’Elisabetta semplicemente indimenticabile. L’apice dell’interpretazione è nella lunghissima scena finale del III atto, che si articola nell’alterco con Frances, nella convulsione della condanna a morte di Essex e nella trasfigurazione della morte («mortua sed non sepulta», si definisce alla fine Elisabetta, guardandosi malinconicamente in uno specchio). Degnissimo partner vocale della Antonacci è il tenore italo-americano Leonardo Capalbo, molto abile in scena, come spadaccino o ambizioso militare, come nell’intonazione delle due Lute Songs nel corso del I atto: la voce si proietta nello spazio con facilità ed efficacia, liberando una linea di canto molto accurata, basata su di una voce dal timbro chiaro e genuino. Ma occorre dire che tutti i ruoli principali sono interpretati da artisti vocali decisamente qualificati e capaci: Duncan Rock (Mountjoy) è un baritono dalla grande presenza scenica e dall’impostazione abbastanza corretta (peccato che non sempre riesca a coprire adeguatamente gli acuti); ottime voci hanno anche il basso David Soar (Raleigh), capace di emissioni suadenti e ironiche, e il baritono Leigh Melrose (Cecil); molto brave le interpreti delle spose dei due capitani, il mezzosoprano Paula Murrihy (Frances) e il soprano Sophie Bevan (Penelope). Corretti gli altri cantanti; Andrés Máspero, come sempre, merita una menzione per aver preparato alla perfezione il Coro del Teatro Real.
Lo spettacolo di David McVicar alterna momenti di grande elaborazione cinetica a fasi statiche in cui l’oscurarsi della luce contribuisce a creare una penombra greve e surreale. Tale alternanza è giustificata, in quanto segue quella musicale. La scena, comunque, è unificata da una struttura astratta: tre semicerchi, concentrici e conficcati nel suolo ma mobilissimi e capaci di ruotare, mimano le orbite celesti, sormontati da altri pianeti e da un cerchio collocato obliquamente (che forse rappresenta lo zodiaco). In basso, all’occorrenza in piedi su di un podio, come il sole al centro del sistema solare, si muove un’Elisabetta – la Gloriana del suo popolo venerabondo – agitata da contrastanti passioni e preoccupata per le ambizioni di chi le gravita attorno. McVicar, come al solito, sa dissimulare la propria arte registica, oppure la impone in modo quasi esagerato, come nel caso dell’ingombrante (ma davvero suggestiva) sfera armillare che occupa perennemente la scena. Il planetario si impone, senza però suggerire alcuna armonia delle sfere celesti; al contrario, se i pianeti girano ordinatamente attorno alla gloria del regno, nel cuore di Elisabetta si agitano senza ricomporsi passioni più o meno degne. Appuntando l’analisi sul congiunto di musica e spettacolo si comprende come il regista stia seguendo capillarmente le varie sezioni della partitura: nei momenti di esaltazione collettiva della sovrana le strutture sceniche si muovono, accompagnate da gran dispiego di comparse e figuranti; nei momenti più intimi (come l’articolato e straordinario duetto della seconda scena del I atto) l’immobilità e l’oscurità permettono che lo spettatore si concentri sulle citazioni e sugli stilemi rinascimentali cui il compositore ama ricorrere. Britten, in effetti, giustappone musica apparentemente “facile”, ricca di melodismo, fanfare ed elementi popolari, a passaggi stridenti, nei quali riappare il Novecento: quando, nella penultima scena del II atto, Elisabetta si appropria beffardamente dell’abito di Frances e la umilia di fronte a tutti, lo stile musicale abbandona la suggestione delle danze di corte che fino ad allora aveva sorretto l’ambientazione per trasformarsi in un incedere grottesco e circense che parrebbe scritto da Shostakovich. Tutto quanto possa erompere dalla finzione e dall’ipocrisia del potere esplode nel concertato finale II, come McVicar sottolinea ferocemente: il buffone di corte – in veste di diavolo caudato – si trastulla con la nomina di maresciallo d’Irlanda per il Conte di Essex; la danza torna ad assumere una parte centrale, e l’elaborazione coreografica di Colm Seery si rivela perfettamente coerente con l’idea registica; se nel quadro metateatrale del I atto le danze ripercorrono tutto il repertorio genuino e contadinesco del divertimento en plein air, nel II atto riproducono invece la fredda e irreprensibile attitudine dei personaggi di corte.
Nel corso del III atto il potere si scopre corruttibile e si rivela in tutta la sua fragilità grazie a strutture madrigalistiche molto più ambigue di quelle del I atto. Quando l’individuo si piega del tutto ai capricci del potere, questo gli volge le spalle, lo mortifica, lo annienta: è appunto quanto accade al Conte di Essex. Ma che dire della protagonista dell’opera? La scomparsa della gioventù, nella inesorabile musica di Britten è soltanto un pretesto con cui il potere politico giustifica le proprie giravolte, e lo fa nel modo musicalmente più immateriale: appunto con i vocalizzi del madrigale inglese. Mentre il cantastorie allegorizza sul destino di Essex, dicendo che ha scambiato l’orgoglio per il potere, riappare il diavolo-buffone a seminare il terrore e a realizzare la profezia della sua caduta. L’allestimento di McVicar, insomma, è abilissimo nel saper raccontare la vicenda e sottolineare come il potere sia sempre corrotto da passioni personalistiche. Idea fondamentale della regia, dunque, non è il dramma personale di Elisabetta, bensì la rappresentazione del potere stesso nelle sue implicazioni più intime: ogni volta che lambisce l’ambito privato o coniugale, tale potere corrompe, umilia, distrugge. L’amara conclusione potrebbe cogliersi in una battuta del perfido Cecil, collocata nel climaterico finale II: ogni uomo blandito dal potere quanto più sale in alto, tanto più rovinosamente cade in seguito.   Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid