Bari, Teatro Petruzzelli, stagione lirica 2017/2018
“ANDREA CHÉNIER”
Dramma di ambiente storico in quattro quadri di Luigi Illica
Musica di Umberto Giordano
Andrea Chénier MARTIN MUHELE
Carlo Gérard CLAUDIO SGURA
Maddalena di Coigny SVETLA VASSILEVA
Bersi DANIELA INNAMORATI
Contessa di Coigny/Madelon ALESSANDRA PALOMBA
Roucher STEFANO MARCHISIO
Pietro Fléville FEDERICO CAVARZAN
Fouquier Tinville ALBERTO COMES
Mathieu FRANCESCO SOLINAS
Un “Incredibile” MASSIMILIANO CHIAROLLA
L’abate poeta NICO FRANCHINI
Schmidt GRAZIANO DE PACE
Il maestro di casa GIANFRANCO CAPPELLUTI
Dumas CLAUDIO MANNINO
Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli
Direttore Michele Gamba
Maestro del coro Fabrizio Cassi
Regia Alfonso Romero Mora
Scene Ricardo Sánces Cuerda
Costumi Gabriela Salaverry
Disegno Luci Felix Garma ripreso da Gianni Mirenda
Movimenti coreografici Sergio Paladino
Allestimento Teatro Abao-Olbe di Bilbao
Bari, 13 aprile 2018
Andrea Chénier, il titolo che qualche mese fa ha inaugurato la nuova stagione della Scala è andato in scena al Teatro Petruzzelli riproponendo l’allestimento del Teatro di Bilbao (maggio 2017) con la regia di Alfonso Romero Mora. L’idea di fondo del regista madrileno è quella di rimarcare che lo Chénier è prima di tutto un dramma d’ambientazione storica che nel 1896 favorì scomode allusioni a vicende contemporanee quali le repressioni degli anarchici in Lunigiana e dei Fasci Siciliani (1893-94). Questo afflato di denuncia sociale – che in sé esaurisce il presunto “verismo” di un’opera quanto mai wagneriana, almeno nelle intenzioni dramamturgiche – viene ribadito da Romero Mora e dalle scene di Ricardo Sánchez Cuerda: fin dal primo quadro, infatti, la residenza dei Coigny mostra enormi crepe nel soffitto che rimandano all’imminenza della Rivoluzione francese e alle lacerazioni sociali ad essa conseguenti; nell’ultimo quadro, al posto del cortile delle prigioni di Saint Lazare, si ritorna all’interno del castello Coigny, ormai fatiscente, simbolo di un’avvenuta devastazione che si presta anche a metaforizzare la sconfitta, su tutti i fronti, di Gérard. Non è un caso che prima della calata del sipario il regista faccia compiere al personaggio un gesto significativo: Gérard, l’uomo rivoluzionario deluso dalle aberrazioni del Terrore, si accorge di non aver acquisito alcuna libertà né dalle costrizioni dell’Ancien régime – soppiantate da una nuova forma, più subdola, di potere violento – né dalle spire del Senso, della passione divorante per Maddalena; e allora, meccanicamente, torna a sistemare un tassello sotto una gamba dell’«azzurro sofà», ora lacero e scolorito, ripetendo così una delle tante azioni servili assolte da suo padre. Gérard appare dunque come un personaggio di Verga del ciclo dei “vinti”? Di sicuro è il perno del dramma secondo Romero Mora, che sceglie di assegnargli un peso inedito, quasi a discapito di Chénier stesso, qui tratteggiato attraverso una costante tinta di dolente malinconia. A conferma di come anche l’impianto scenico rimarchi la lettura engagé di quest’opera, si noti come nel secondo quadro la Parigi del 1794 venga tratteggiata attraverso una serie di impalcature (segno di una ricostruzione in atto) e da cumuli di cenci (alcuni cadono dalla sommità del teatro) che ricordano la Venere degli stracci di Pistoletto, emblema dell’arte povera e simbolo del rapporto tra «ciò che cambia e ciò che non cambia mai» (cfr. La voce di Pistoletto, Bompiani, p.161). Fedeli al dettato delle didascalie di Illica e curati nei dettagli i costumi di Gabriela Salaverry. Ottimo il disegno luci di Félix Garma (qui ripreso da Gianni Mirenda) che, da solo, riusciva a ricreare le suggestioni delle ambientazioni originariamente concepite dal librettista. Piuttosto incongrui sono risultati i movimenti coreografici di Sergio Paladino (anche assistente alla regia) nel primo quadro dove la corporeità esibita dai due danzatori risultava eccentrica rispetto alla situazione inscenata. Come sempre il Coro preparato da Fabrizio Cassi resta uno dei fiori all’occhiello del Petruzzelli, impeccabile e preciso, unione di solisti dotati ciascuno di una personalità propria ma capaci di amalgamarsi a dovere. L’altrettanto brava (e giovane) Orchestra è invece stata lasciata un po’ in balia di se stessa dal direttore Michele Gamba che nella lodevole volontà di restituire alla partitura di Giordano lo spessore sinfonico che gli è proprio, ha in più occasioni soverchiato le voci e sbilanciato le volumetrie orchestrali (specie quelle delle percussioni e degli ottoni) adottando agogiche ansiogene e mancando più di un attacco rivolto ai cantanti. Il tenore brasiliano Martin Muhele ha interpretato ottimamente Chénier: sicuro negli acuti, tutti ben timbrati, elegante nel fraseggio e nelle mezze voci, abile nel non forzare mai la voce e al tempo stesso nel garantire al personaggio la giusta veemenza. Forse su indicazioni del regista ha interpretato uno Chénier più malinconico e dimesso del solito ma ne è sortita una lettura complessiva del personaggio meditata e convincente. Il soprano bulgaro Svetla Vassileva possiede una presenza scenica notevole e padroneggia una vasta gamma di sfumature e di fraseggio. Tendenzialmente interpreta con piglio “verista” anche parti che non sono riconducibili a quella stagione del melodramma nostrano; nel caso dello Chénier questa sua specificità vocale è perfettamente adeguata e porta a esiti ragguardevoli (pur tuttavia nella celeberrima “La mamma morta” sembra che abbia voluto contenersi entro certi limiti, evitando un pieno abbandono lirico). Ottimo il Gérard di Claudio Sgura soprattutto per l’interpretazione attoriale che ha assegnato al personaggio l’importanza che merita nel dramma. Peccato che in alcuni punti – dove giustamente il volume vocale andava contenuto – l’orchestra non abbia rispettato le giuste dinamiche coprendone la voce. Degno di particolare plauso il baritono Stefano Marchisio che ha cantato in modo perfetto per proiezione della voce, qualità di timbro, facilità di emissione e dizione, attribuendo il giusto carattere al personaggio di Roucher. Buona la prova di Daniela Innamorati (Besi)e Alessandra Palomba (Contessa di Coigny / Madelon), meno convincente il Fleville di Federico Cavarzan a motivo di una imperfetta proiezione del suono. L’Incredibile di Massimiliano Chiarolla possedeva il giusto timbro un poco nasalizzato capace di tratteggiare la natura bieca della spia (già dal 1870 in alcune opere il tenore secondo acquisì il ruolo del villain). Tutte lodevoli le parti di fianco, con un merito particolare da assegnare al giovanissimo tenore Nico Franchini (che ha una voce bellissima e che presto ci auguriamo di ascoltare in parti da protagonista), al bassbariton Graziano De Pace (interprete di intelligenza attoriale spiccata e dotato di voce elegante) e al basso Alberto Comes (timbro brunito e ottima dizione).