Teatro Bellini, Stagione 2017-2018
“L’ULTIMO DECAMERONE”
Di Stefano Massini da Giovanni Boccaccio
Regia Gabriele Russo
Musiche Nello Mallardo
Coreografia Edmondo Tucci
Interpreti Angela De Matteo, Maria Laila Fernandez, Crescenza Guarnieri, Antonella romano, Paola Sambo, Camilla Semino Favro, Chiara Stoppa
Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo
Co-produzione Teatro Bellini e Teatro di San Carlo
Scene Roberto Crea
Costumi Giusi Giustino
Luci Fiammetta Baldiserri
Napoli, 20 aprile 2018
Prosa musica e danza in scena insieme al Teatro Bellini di Napoli, nella co-produzione che vede protagonisti i due poli principali dell’arte teatrale partenopea, ossia il San Carlo e il Teatro Bellini. Un Ente lirico e un Teatro di prosa per la prima volta insieme per un connubio artistico di non semplice gestione, in una alleanza che si è misurata con L’Ultimo Decamerone, ovvero il Decamerone di Giovanni Boccaccio, mediato dalla riscrittura di Stefano Massini, che omaggia quella parte di testo meno nota, ri-creando dieci novelle attraverso il materiale delle cento originali. In un processo che non è solo ripresa, ma vera e propria rivitalizzazione di un classico della Letteratura italiana, Massini immagina che i narratori non siano mai usciti dal ‘bunker’ dov’erano rinchiusi per fuggire la peste e affida a ognuno, ormai invecchiato, «una storia che, pur non facendo parte del Decamerone originario, contiene un mosaico di tutte le novelle che Boccaccio fa raccontare a quel singolo personaggio». Un’operazione complessa e interessante, in cui il pre-testo boccaccesco è un vero e proprio pretesto per mettere in scena la necessità che l’uomo ha di narrare, un bisogno che nel corso dei secoli non si è affievolito ma ritorna con prepotenza, sia pure attraverso codici, sistemi e visioni diverse.
Altrettanto interessante è, nel complesso, la scelta registica di Gabriele Russo, il quale ha privilegiato una visione della narrazione al femminile, scegliendo di affidare a sette attrici racconti, evocazioni, azioni. L’assenza dell’elemento maschile, così forte nella sostanza dei fatti raccontati e rappresentati, emerge attraverso il filtro di una visione di genere (e Boccaccio stesso, nel proemio, sottolinea la dedica alle donne). Il bisogno di narrare è una esigenza che sembra aver perso vigore a causa della cristallizzazione dei protagonisti nella profondità del bunker, ma è al contempo una necessità che sa rinascere con pari vigore a ogni interazione fra esseri umani. Le persone non solo non possono fare a meno di narrare, ma anche di rappresentare l’azione attraverso il corpo. Quest’ultimo strumento di comunicazione, presente in scena fin dai tempi dell’origine dello spettacolo teatrale (si pensi alla tragedia greca del V secolo a. C.), è il veicolo espressivo dell’altro protagonista di questa produzione, il Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo diretto da Giuseppe Picone.
Attraverso il linguaggio coreografico di Edmondo Tucci la regia innesta il movimento coreutico in alternanza alle scene di prosa, in una operazione di non semplice gestione. Difatti, non tutte le sezioni danzate appaiono opportunamente integrate nella drammaturgia e il Corpo di ballo non è un personaggio sempre chiaramente identificabile da un punto di vista ideale. L’uso corali a finale chiuso (ad esempio il primo momento che vede coinvolti tutti i danzatori in uno spazio non adeguatamente ampio per le esigenze coreutiche), per lo più costruiti su una visione frontale e statica, si visualizza come un inciso di bellissimi corpi che esibiscono qualità fisiche ed espressive che inducono un applauso finale non opportuno. E questo perché l’applauso rompe la continuità della narrazione e fa comprendere che il pubblico ha assistito a un pezzo ‘a effetto’. Così non è stato, invece, per il passo a due tra i bravi Luisa Ieluzzi ed Etrugrel Gjoni e per l’ultimo numero danzato nella scena dei teatranti, ben integrato nella vicenda (con Anna Chiara Amirante, Sara Sancamillo, Ertugrel Gjoni, Alessandro Staiano). L’assolo Claudia D’Antonio, una delle danzatrici di maggior spicco della Compagnia sancarliana, intenzionato a ‘doppiare’ in danza quanto avvenuto, non appare efficacemente innestato in quanto l’immobilità generale intorno alla figura danzante ferma il tempo nello spazio scenico. In questo particolare percorso coreografico, la mano di Edmondo Tucci appare più felice nei momenti in cui il suo background classico può farsi spazio e arricchire il vocabolario dei movimenti, che altrimenti rischiano di involversi in una asfittica rete di ‘non detti’. E questo accade soprattutto laddove la musica offre un arco melodico più immediatamente riconoscibile.
La musica, appositamente composta da Nello Mallardo, presenta diversi punti interessanti e cogenti, riportando ancora una volta all’attenzione l’importanza del lavoro di équipe.
Le sette donne, magistralmente portate in scena dalle attrici Angela De Matteo, Maria Laila Fernandez, Crescenza Guarnieri, Antonella romano, Paola Sambo, Camilla Semino Favro, Chiara Stoppa sono tutte coinvolgenti e convincenti nella incorporazione della verità scenica e sono padrone del movimento, in un bel connubio di narrazione e azione. Interessante la scena di Roberto Crea, costruita in maniera che i personaggi possano entrare e uscire da aperture ‘a oblò’ inserite nei praticabili, e le luci ben costruite di Fiammetta Baldiserri (non a caso anche il suo nome si integra nel contesto). I costumi di Giusi Giustino, rinomata direttrice della sartoria del San Carlo, hanno (s)vestito i danzatori in maniera probabilmente poco adeguata al resto della compagine attoriale, poiché tagliati su un gusto ‘primitivo’ che, per quanti sforzi si possano fare per comprenderne l’idealità, richiamano inevitabilmente un mondo diverso da quello evocato e lasciano indugiare lo sguardo dello spettatore sulla bellezza dei corpi.
Purtroppo la difficoltà di gestione della danza risiede proprio in questo: impatto immediato, apparenza, emozione, significato profondo, estetica del movimento e interpretazione sono gli aspetti che la messa in scena coreica comprende tutti, ma che al pubblico – e spesso anche ai professionisti di un settore non coreutico – è difficile integrare felicemente in una visione globale.
Ma la bellezza di una nuova produzione risiede anche nella possibilità di discutere dell’organizzazione di una messa in scena alla cui base c’è un lavoro di studio complesso, un processo riflessivo e operativo che desta sempre gli stessi dubbi e le stesse difficoltà, specie nella trasformazione di codici. L’ultimo Decamerone è stato anche per questo oggetto dell’incontro organizzato all’Università Federico II di Napoli il 19 aprile e che ha accolto, insieme a docenti del Corso di Laurea in Discipline della Musica e dello Spettacolo Gianfranco Alfano, Francesco Cotticelli e Adriana Mauriello, il regista Gabriele Russo, il coreografo Edmondo Tucci e le attrici. Gli studenti di un corso di Laurea fondato di recente hanno potuto ascoltare dalla voce dei protagonisti le particolarità del processo creativo e avvicinare lo studio della storia, della teoria e dell’estetica alla pratica. Perché il teatro è uno dei cuori pulsanti di Napoli e le nuove produzioni testimoniano la vivacità culturale che pervade la città; proprio per questo il Teatro Bellini, il San Carlo e tutti le Istituzioni accademiche e teatrali partenopee si sono riunite anche sabato 21 aprile all’Università Suor Orsola Benincasa, per discutere proprio del futuro del Teatro e della necessità di ricreare un nuovo pubblico. In un’epoca in cui le nuove tecnologie sembrano aver messo in crisi alcuni aspetti della fruizione dello spettacolo dal vivo, il teatro è in grado di mantenere viva la propria magia grazie alla verità che porta in scena, grazie all’humanitas che permette ai corpi di tradursi davvero in storie, senza alcun artificio.
L’Ultimo Decamerone sarà in scena fino al 6 maggio e vale la pena di immergersi nel suo mondo fatto di ricordi, visioni, tentazioni. (foto di scena Mario Spada)