Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Stagione 2017-2018
“LA FAVORITE”
Opera in quattro atti di Alphonse Royer, Gustave Vaëz, e Eugéne Scribe
Musica di Gaetano Donizetti
Leonor de Guzman VERONICA SIMEONI
Fernand CELSO ALBELO
Alphonse XI MATTIA OLIVIERI
Balthazar UGO GUAGLIARDO
Ines FRANCESCA LONGARI
Don Gaspar MANUEL AMATI
Un Seigneur LEONARDO SGROI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Fabio Luisi
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Ariel Garcìa Valdés
Coregia Derek Gimpel
Scene e costumi Jean-Piere Vergier
Luci Dominique Borrini
Firenze, 28 febbraio 2018
Nella ricca e interessante stagione invernale del Teatro del Maggio, questa Favorite è un evento di particolare importanza. Prima di tutto perché si tratta della prima esecuzione assoluta a Firenze nell’originale versione francese; poi perché questa Favorite segna un notevole esordio alla direzione dell’Orchestra del Maggio, in un un’importante titolo d’Opera, di Fabio Luisi, che dal prossimo mese assumerà il ruolo di Direttore Musicale del Teatro fiorentino, avvicendandosi con Zubin Mehta, che ne rimarrà direttore onorario a vita.
La Favorite nasce in Francia, su libretto francese, al termine di una genesi compositiva molto elaborata: dalla fonte letteraria “Les Amours malheureuses ou le Comte de Comminges” di Baculard d’Arnaud (1790), Donizetti, stabilitosi nel 1838 a Parigi, inizia a scrivere l’opera Adelaide per il Theatre des Italiens, ma il progetto non va in porto e l’Adelaide non viene mai messa in scena; il materiale musicale e drammaturgico viene quindi riversato in un nuovo progetto, L’ange de Nisida, destinata al Theatre de la Renaissance, il cui fallimento fa sì che la partitura rimanga ancora una volta nel cassetto; frattanto Donizetti stava elaborando per l’Opera Garnier Le Duc d’Albe, la cui stesura rimase incompiuta e portata a termine solo molti anni dopo dall’allievo Matteo Salvi; è a questo punto che il compositore bergamasco decide di riprendere nuovamente in mano il soggetto e gran parte della musica già scritta. Ai librettisti dell’Ange de Nisida Royer e Vaëz, si affianca Eugéne Scribe e nasce La Favorite, che, dando nuova coerenza e organicità al materiale già precedentemente prodotto, integrato con musica scritta ex novo, va finalmente in scena con successo nel massimo teatro parigino il 2 dicembre del 1840.
L’opera rapidamente si afferma in Francia diventando di repertorio. In Italia si rende necessaria una traduzione che, per motivi di censura, mitighi gli aspetti più scabrosi legati a moralità, temi politici e religiosi; delle due traduzioni ritmiche approntate a tamburo battente negli anni immediatamente successivi, si afferma quella di Francesco Iannetti e, in questa versione La Favorita diventa popolare nei paesi non francofoni e continua ad essere eseguita regolarmente in italiano fino agli anni 70 e oltre.
La vicenda – dalla versione originale francese senza tagli e aggiustamenti – narra di un novizio, Fernand, che appena prima di prendere i voti, si allontana dal convento trascinato dall’amore per una donna misteriosa, Leonore. Ella è la favorita del re di Spagna, Alphonse XI, e vive su un’isola, dove riceve le sue visite; Fernand per rendersi degno di lei si fa soldato, e si copre di gloria in battaglia contro i mori, ottenendo così la riconoscenza del re, al quale chiede in premio la mano della donna che ama. Mentre tutti – il re, Leonore, i cortigiani – conoscono la verità, solo Fernand ignora lo stato della donna. Quando il re, temendo l’ira della Chiesa per il suo adulterio, decide di concedergliela in matrimonio, Fernand viene deriso dai cortigiani e trattato come un uomo che ha perduto l’onore. Solo a questo punto Fernand prende coscienza della sua situazione e reagisce con furia disperata: si strappa di dosso insegne e onorificenze e le getta ai piedi del re, spezza la spada che questi gli aveva donato e fugge nuovamente in monastero, maledicendo la sposa. Il giorno in cui Fernand prende finalmente i voti, Leonore riesce a raggiungerlo in fin di vita, per ricevere l’estrema dichiarazione d’amore e morire tra le sue braccia. La messa in scena di questa edizione fiorentina, che riprende un allestimento prodotto nel 2002 per il Liceu di Barcellona, con la regia di Ariel Garcia Valdes e le scene e i costumi di Jean-Piere Vergier, non brilla per profondità di analisi, gestione delle masse, capacità di rappresentare o interpretare il testo; anzi appare piuttosto rinunciataria, certo non invadente, ma sicuramente povera di idee. La massima semplicità garantisce una certa gradevolezza estetica, anche grazie alle belle luci di Dominique Borrini. La scena è dominata in tutti gli atti da un unico elemento, uno scoglio o roccia che sta perfettamente al centro e, leggermente ruotato di volta in volta durante i lunghi cambi di scena, dovrebbe suggerire le diverse ambientazioni; i protagonisti sembrano abbandonati a se stessi, nelle classiche, vecchiotte movenze da melodramma, il coro è perlopiù statico. Ben altre soddisfazioni derivano dall’esecuzione musicale.
L’incontro tra Fabio Luisi e l’Orchestra del Maggio si preannuncia felice. La compattezza e la bellezza del suono, l’ampiezza delle dinamiche, il fraseggio che respira grazie ad una libertà agogica rara, in cui ogni dilatazione o contrazione dei tempi è suggerita ed eseguita con pulizia impeccabile, senza mai l’ombra di impercettibile asincronia, suggeriscono un feeling tra la compagine e il direttore che sembra gioia di suonare insieme; sbirciando in buca, in effetti, se ne ha la conferma, nella chiarezza delle intenzioni che si riflette nella chiarezza del gesto, essenziale e armonioso, decisamente cordiale. Luisi dirige accentando e sottolineando, trovando tempi e colori affascinanti, svelando nuances, facendo teatro, sia nei brani orchestrali che nell’illuminante accompagnamento al canto.Il Coro diretto da Lorenzo Fratini segue dappresso, dando una grande prova; sono magici i momenti in cui la sonorità è sommessa come un sussurro, quanto le esplosioni in fortissimo, entrambi eseguiti con suono perfettamente rotondo e setoso; si potrebbero citare, solo per fare un esempio, il finale dell’Atto III, magnifico nell’apporto di Orchestra e Coro e la Prima scena dell’Atto IV.
Venendo al cast vocale bisogna rilevare, pur nelle differenze tra le varie personalità, l’omogeneità nell’appropriatezza stilistica, la generale adesione al clima espressivo del Donizetti francese, che si manifesta in un’eleganza, una pulizia formale, una ricerca della sfumatura, un fraseggio non freddo, ma certamente castigato. L’esplosione, lo sfogo vocale, idonei al Romanticismo italiano più tardo, che caratterizzavano gli interpreti dei decenni passati alle prese con La Favorita in versione italiana, magari dotati di grandi voci, ma non troppo in regola con lo stile, sono lontani dall’approccio di questa compagnia di canto caratterizzata da una disciplina musicale e interpretativa moderna e da strumenti ben educati, più duttili che appariscenti per volume o squillo.
Veronica Simeoni, applaudita protagonista della Carmen andata in scena a gennaio in questo stesso teatro, dà conferma delle sue doti vocali e di interprete; il suo strumento è chiaro, di bel timbro e di medio peso, più sonoro nella regione medio-acuta, l’emissione è scorrevole, il suono omogeneo; la buona proiezione le consente di essere chiaramente udibile in sala, con l’eccezione di qualche isolata nota grave debole. La sua interpretazione è ricca di inflessioni e sfumature, sempre viva e credibile sia nello slancio che nella malinconia che nella disperazione, dal momento che Veronica Simeoni è una cantante tecnicamente sicura che affronta il ruolo senza difficoltà e con le risorse necessarie ad ottenere la ricchezza e la varietà dinamica e di colori necessaria.
La sua aria “O mon Fernand” è un’ottima esecuzione, dolcissima, con un tono sospeso molto poetico, nella seguente cabaletta, pur eseguita correttamente, non avrebbe guastato maggior mordente dato da uno strumento più sonoro e massiccio, come in qualche altro passaggio più concitato; si tratta comunque nel complesso di una notevole Leonore.
Osservazioni simili si possono fare per Celso Albelo che, senza tentare di snaturare il suo strumento lirico-leggero, ma anzi sfruttandone la dolcezza e la morbidezza, inquadra Fernand nella vocalità tenorile francese “di grazia”. Albelo possiede tutte le note di un ruolo dalla tessitura abbastanza impervia, gli acuti sono raggiunti senza alcuna tensione, il volume e lo squillo sono limitati, ma ammirevole è la capacità di smorzare il suono con perfette filature, che conferiscono il giusto tono estatico al personaggio giovane e idealista. Il suo è un Fernand amoroso, fiero all’occorrenza, non così sferzante e perentorio come qualche pagina farebbe desiderare, ad esempio la scena conclusiva dell’Atto III nella quale è mancata qualche scintilla che gli consentisse di sovrastare coro e orchestra, ma la sua prova in conclusione è nettamente positiva. È un peccato che un’eccessiva nasalità tolga fascino al suo timbro.
Il baritono Mattia Olivieri offre una piacevolissima sorpresa, benché molto giovane, appare vocalmente maturo, in possesso di una voce calda e piuttosto scura, dal timbro rotondo e nobile. Entra in maniera convincente nel personaggio, al quale conferisce la giusta autorevolezza: sa essere appassionato e poetico nella sua aria “Leonore,Viens!” seguita da una cabaletta vibrante; ancora più notevole è l’esecuzione dell’aria “Pour tant d’amour”, nella quale sa fondere la magnanimità esteriore con un accento a tratti sarcastico e sprezzante, che illustra perfettamente la situazione ambigua del sovrano che deve cedere di fronte alla ragion di stato, pur essendo intimamente tanto addolorato quanto contrariato, senza poterlo mostrare. Se la pronuncia francese non è sempre perfetta – cosa che lo accomuna ai suoi compagni di scena – è notevole la sua assimilazione dello stile di canto francese e la sua capacità di entrare nei panni del baritono grand seigneur ottocentesco, dall’emissione sempre compatta e morbida e dall’espressione forbita.
Ugo Guagliardo interpreta con correttezza il personaggio di Balthazar; la sua voce piuttosto chiara e non particolarmente sonora nel registro grave, dall’emissione levigata e gentile, lo rende efficace nei momenti in cui il suo canto deve essere paterno e affettuoso, molto meno nelle scene in cui dovrebbero emergere la solennità sacerdotale e un’autorità a tratti terribile.
Manuel Amati, tenore ventenne, si disimpegna bene nel ruolo di Don Gaspar, quantitativamente piccolo, ma drammaturgicamente essenziale; ha una voce piccola e dal timbro aguzzo, che però corre bene in sala. Buona vocalmente e scenicamente è la Ines di Francesca Longari, anche lei molto giovane, ma non nuova sulle scene del Teatro del Maggio. Corretto è nel suo piccolo ruolo Leonardo Sgroi. Al termine tutti gli interpreti vengono calorosamente applauditi, in particolare il direttore Fabio Luisi, e il direttore del coro Lorenzo Fratini.