Nato a Venezia il 4 marzo 1678 e morto a Vienna nel 1741, Antonio Vivaldi fu avviato dal padre, violinista nella cappella di San Marco, agli studi musicali che continuò per breve tempo con G. Legrenzi. Nel 1703 fu ordinato sacerdote, ma, dispensato dall’obbligo di celebrare Messa per le sue condizioni di salute, entrò allora come insegnante di violino nel Conservatorio della Pietà, attività che svolse per tutta la vita salvo brevi interruzioni per viaggi all’estero soprattutto ad Amsterdaam, Praga e Vienna dove era molto richiesto per la sua musica ritenuta geniale e conosciuta grazie alla pubblicazione, nel 1705, da parte dell’editore Sala, delle sonate da camera a tre, di chiara derivazione corelliana. Famoso per la sua abbondante produzione strumentale, che comprende sonate, concerti per vari strumenti, sinfonie, musica da camera, Vivaldi può essere considerato il compositore più rappresentativo della tradizione veneziana tra quelli che operarono nella città lagunare nella prima metà del secolo mentre si andavano sempre più diffondendo le opere di autori stranieri.
Nelle opere di Vivaldi, nonostante la presenza dei recitativi secchi, è possibile trovare fantasia, ricerca dei valori espressivi sia nel canto che nella strumentazione da lui molto curata secondo lo stile del concerto; è difficile, tuttavia, trovare nei suoi melodrammi una linea di evoluzione stilistica, anche se dal paragone fra alcune opere del primo periodo e quelle successive emerge il passaggio da un’iniziale libertà di linguaggio e di stile ad una maggiore frequenza delle impostazioni tecniche. Come Antonio Caldara, anche Vivaldi curò il rapporto dell’elemento strumentale con la vocalità, ma non per ragioni di ideali costruttivi quanto per la sua esigenza espressiva. Inolre egli trattò l’orchestra secondo la tecnica del concerto barocco con gli archi alla base della struttura fondamentale e con l’aggiunta di strumenti a fiato, sempre a coppie secondo le esigenze tecniche; così ai flauti è affidata la funzione di rappresentare situazioni idillico-pastorali, alle trombe la rappresentazione di situazioni militari e ai corni le scene di caccia, mentre gli oboi sono utilizzati soltanto come sostegno dei violini. L’influenza del concerto barocco è evidente anche nel linguaggio violinistico che caratterizza alcune introduzioni ai pezzi d’assieme fondate su un’idea tematica propria che ritorna parzialmente o interamente nei successivi interventi strumentali o in frammenti nella tessitura dell’accompagnamento. Questa separazione tematica fra la parte vocale e quella strumentale, tipicamente veneziana, conferisce alla prima una forma quasi intarsiata con i frammenti strumentali che si richiamano a vicenda. Non mancano, tuttavia, arie prive d’introduzioni e di intermezzi strumentali quando il compositore volle dare maggiore risalto alla parola poetico-musicale del protagonista; ne è un esempio il commovente canto di Megacle nell’aria Se cerca, se dice dell’Olimpiade.
Indipendente dall’opera si presenta la sinfonia d’apertura nella forma tripartita dove il primo tempo, un Allegro, in misura binaria o quaternaria, e il terzo tempo, un breve Allegro in forma ternaria, sono nella tonalità maggiore, mentre il secondo, Lento, in tonalità minore, è caratterizzato da un pathos molto vicino al carattere teneramente malinconico del canto napoletano. Inoltre nelle sinfonie delle prime opere e soprattutto in quella della più antica, Ottone in villa, in do maggiore, domina l’elemento concertante di chiara derivazione scarlattiana, ma non più presente nelle opere posteriori. In essa nel primo tempo, Allegro, i passi brillanti sono messi in risalto da due violini, mentre nel secondo, Larghetto, la parte principale è affidata a due oboi ora soli ora uniti ai violini; il tema del Larghetto è ripreso in do maggiore e nel movimento di Allegro nel terzo tempo.
Nelle opere di Vivaldi risalta una maggiore attenzione per la scrittura vocale estremamente varia che si adatta alla molteplicità delle situazioni e delle emozioni con una gradazione musicale che va da passi semplici, piani e senza forzature melodiche, ad altri dove si riscontrano salti dissonanti, modulazioni a toni lontani e figurazioni ritmiche più complesse e meno usate. Di queste è un esempio l’uso del caratteristico ritmo lombardo consistente nella rielaborazione della figurazione ritmica costituita da una croma puntata a cui segue una semicroma che viene trasformata nel suo opposto (semicroma a cui segue una croma puntata). Questa figurazione, chiamata lombarda, era del tutto sconosciuta a Roma prima del 1723, anno in cui vennero rappresentate nella città dei Papi tre opere di Vivaldi. Il compositore Quantz, presente a Roma, rilevò che i Romani apprezzarono questo ritmo a tal punto da preferire solo le opere in cui era utilizzato perché conferiva un’accentuazione patetica alla situazione rappresentata.
Tra le sue opere ha avuto una fortuna diversa La fida ninfa, su libretto di Scipione Maffei, in quanto, dopo la prima rappresentazione del 6 gennaio 1732 al Teatro Filarmonico di Verona con l’allestimento scenico di Francesco Galli Bibiena, fu nuovamente messa in scena nel 1737 a Vienna con il titolo Il giorno felice e nel 1958 al Théâtre des Champs Elysées a Parigi. L’opera appartiene al genere pastorale-celebrativo, ma, a differenza di altri lavori simili, oggetto di encomio non è una persona fisica bensì un avvenimento pubblico, l’inaugurazione del Teatro Filarmonico. L’argomento, che vuole essere un’allegoria sul matrimonio, sull’amore e sulla fedeltà, si rifà al solito cliché con scambi d’identità e la presenza dei pirati. A Naxos, prigionieri del corsaro Oralto, si trovano un pastore di Sciro, Narete, e le sue due figlie, Elpina e Licori (la ninfa), promessa sposa ad Osmino presente anche lui nell’isola, al servizio del corsaro, sotto il falso nome di Morasto. Nella vicenda non mancano gli equivoci tra cui la presunta morte di Licori rifugiatasi, invece, in una grotta fra gli scogli per sfuggire al corteggiamento di Oralto; infine, durante l’assenza del corsaro i prigionieri chiariscono ogni equivoco e decidono la fuga nonostante infuri una violenta tempesta in mare. In loro aiuto interviene Giunone che chiede a Eolo di proteggere gli infelici fuggiaschi affinché:
… fian di questi miei pastori
Su nobil scena armonica e novella
Favoleggiati un giorno i casti amori.
Per udir sì bei casi
In via porransi a stuolo
Alme d’amor divote
In questi versi conclusivi affidati a Giunone c’è un chiaro riferimento al nuovo teatro inaugurato (nobil scena armonica novella) e al pubblico veronese (alme d’a-mor divote) per il quale dovrà essere sempre bel tempo quando in via porransi a stuolo. L’opera, la cui monotonia, dovuta a un susseguirsi di recitativi e arie, è alleggerita con il sapiente inserimento di due duetti, di un trio, di un quartetto, di un quintetto e di un sestetto, presenta quella limitata plasticità musicale di un’idea, di un’immagine o di un moto interiore, tipica di altri lavori. Sono degni di nota certe varianti secondo la maniera lombarda che sembrano imprimere un particolare impulso ora alle lievi aure dell’aria di Elpina (Atto I) ora alla gioia amorosa di Licori (Atto III) quando riconosce Osmino; una nota patetica è data dalla siciliana utilizzata nell’aria di Osmino-Morasto (Atto II), Ah che non posso lasciar d’amore, e in due frammenti dell’atto III: la preghiera al dio Pan cantata alternativamente da Narete e Osmino, un Andante in re minore articolato alla stregua di una canzonetta con due strofe e un ritornello, e la breve aria di Osmino che ansiosamente chiede notizie sulla sorte di Licori a Narete ed Elpina. Un aspetto più pittorico, dato dal rapporto fra naturale e soprannaturale, caratterizza il terzo atto dove spicca la rappresentazione della tempesta in mare preceduta da un’invocazione del coro a Giunone affinché intervenga a favore dei fuggiaschi. Dal punto di vista formale è una sinfonia con corni da caccia in cui lo scroscio della pioggia è realizzato da semicrome ribattute e il balenio dei lampi da scalette di semicrome. Poco dopo appare Giunone seguita da Eolo che procede al suono di una sinfonia bizzarra. Il dio con una formula magica caccia i venti furiosi in due caverne e chiama quelli favorevoli che avanzano al suono di un Menuet.
Nel corpus operistico di Vivaldi conservato nella Biblioteca Nazionale di Torino spicca Arsilda, regina di Ponto che, per la sua complessità e la sua ricchezza di elementi musicali, fornisce validi esempi della poetica operistica vivaldiana. Di essa esistono due versioni, entrambe precedute dalla stessa sinfonia, delle quali solo la prima ha il frontespizio in cui si legge Arsilda, regina di Ponto / Atti 3 con Sinfonia, musica di Don Antonio Vivaldi / cantata in Sant’Angelo in autunno 1716; ciò fa pensare che la seconda versione sia un rimaneggiamento fatto in occasione di una sua ripresa. L’argomento del libretto di Domenico Lalli, il cui vero nome era Nicolò Sebastiano Biancardi, si rifà alla tradizione con amori, intrighi, scambi di identità e lieto fine. Ad Ama, nell’antica Cilicia, il giovane principe Tamese, orfano del padre, si sta preparando a salire sul trono, in quel momento occupato, in qualità di reggenti, dalla madre e dallo zio paterno Cisardo. Per sedare dei tumulti al confine dello stato, la regina manda il figlio con Barzane, re di Lidia e promesso sposo di Lisea, sorella gemella di Tamese. Durante il viaggio i due amici sono ospitati dal re del Ponto della cui figlia Arsilda s’innamorano entrambi. La giovane sceglie Tamese e Barzane si allontana con propositi di vendetta. Intanto Tamese porta felicemente a termine la sua missione, ma nel viaggio di ritorno una tempesta lo fa naufragare su uno scoglio. La regina, credendolo morto, per evitare che il regno finisca in mani estranee, diffonde la notizia che è tornato Tamese scampato alla morte e nello stesso tempo fa travestire da uomo Lisea che, essendo molto somigliante al fratello, può salire al trono. Nelle vesti di Tamese sposa Arsilda la quale, ignara di tutto, non capisce il comportamento di quello che crede suo marito e non accetta volentieri le motivazioni addotte da Tamese che, prima di dare un erede al trono, vuole affrontare Barzane nella prossima battaglia. Non molto tempo dopo giunge Barzane con i suoi soldati e, introdottosi furtivamente, tenta di rapire Arsilda salvata da un giardiniere coraggioso che altri non è se non il vero Tamese. Barzane, fatto prigioniero, viene portato al cospetto di Tamese-Lisea che lo rimprovera duramente per aver tradito la sua promessa sposa, ma prova un impeto di gioia quando comprende di non essere stata dimenticata. Alla fine Tamese, dopo aver rivelato la sua identità ad Arsilda, la sposa, mentre Lisea riprende la sua identità e perdona Barzane. L’opera fu rappresentata al Sant’Angelo, di cui Vivaldi era impresario, con un cast eccezionale costituito dai contralti Anna Vincenzi (Arsilda), e Anna Maria Fabbri (Lisea), dal tenore Annibale Pio Fabbri (Tamese), dal soprano castrato Carlo Valcata (Barzane) e dal basso Angelo Zannoni (Cisardo) e con il fastoso allestimento scenografico curato da Bernardo Canal. Musicalmente l’opera si presenta come un collage di gemme musicali collegate secondo una continuità rettilinea di tratti emotivi e non di carattere; unica eccezione è il personaggio di Mirinda rappresentata nel suo candore, aggraziata, ma anche teneramente malinconica. Per quanto riguarda l’orchestrazione, essa si basa sugli archi con l’aggiunta saltuaria, in coppia, di trombe, corni e flauti, mentre l’oboe ha la funzione di raddoppiare i violini. Dopo una sinfonia in tre tempi: un Allegro festante in do maggiore, un Andante in minore e un Presto in 3/8, si apre il sipario su una scena fastosa con colonnati, statue che rappresentano i numi tutelari della Cilicia e altari con il trono in un lato. Un breve coro, Tutto il regno in lieta gara, accompagnato dall’orchestra con l’aggiunta di due trombe e ripetuto dopo il giuramento di Lisea nelle vesti di Tamese, celebra l’incoronazione del principe che, dopo aver giurato, presenta al popolo la sua promessa sposa Arsilda. La gioia non è turbata nemmeno dall’incombente minaccia di Barzane della cui sconfitta si è certi; Cisardo, infatti, paragona l’impresa ad un viaggio per mare intrapreso da un esperto nocchiero che, dopo aver navigato nel mare incostante, giunge in porto. L’immagine della tempesta prende vita in un Allegro in 3/8, mentre un languido Largo presenta in modo sontuoso e regale la figura di Arsilda. Tocchi leggeri e teneri tratteggiano Mirinda a cui è affidata una leggiadra arietta-monologo, mentre a Barzane, introdottosi furtivamente nel palazzo per rapire Arsilda, sono affidate due arie delle quali la seconda, Sempre piace goder, che reca l’indicazione violoncello solo, è accompagnata da una parte di basso che agisce in modo concertante. Sempre nell’atto primo spicca la scena dell’offerta di una freccia d’oro a Vulcano per ringraziarlo della vittoria conseguita; qui appare quel contrasto fra la potenza delle forze spettacolari e la leggerezza di spiriti musicali tipico del teatro di quel periodo. Nel momento in cui vengono evocate, infatti, forze telluriche e vulcaniche, una graziosa musica pastorale con echi di due corni da caccia accompagna il coro. L’atto si conclude con il canto del Gelsomino intonato da Mirinda e accompagnato dal clavicembalo a due parti reali, dalle viole divise e da due parti di violino. L’atto secondo si presenta più ricco e prezioso. In esso spiccano: la tenera e malinconica aria di Mirinda, Un certo non so che, in cui la giovane vagheggia con dolce tristezza l’amore; la scena corale di caccia annunciata da una Sinfonia con fanfara di corni; l’aria di Lisea, D’una cervetta, a cui danno toni pastorali due flauti che si muovono per terze con accompagnamento dei violini che fungono da basso; infine l’aria di Arsilda, Su svegliatevi augelletti, accompagnata da due flauti e da due violini sulla scena. Dell’atto terzo sono degni di nota: l’aria di Lisea, Di candidi vortici ondosi, in cui la sua agitazione, i suoi tormenti si sciolgono in vocalizzi tortuosi, mentre i suoi pensieri confusi sono tratteggiati da interventi drammatici; l’aria di Tamese, Tornar voglio al primo ardore, caratterizzata da una nobile serietà alla maniera lulliana, come si può notare nell’indicazione Andante alla francese, e il coro finale D’Imeneo la bella face, accompagnato dall’orchestra con l’aggiunta degli oboi.
Autentico banco di prova, in cui si cimentarono generazioni di musicisti, fu il libretto metastasiano dell’Olimpiade che in due passi quali, l’aria di Megacle Se cerca se dice e il duetto Megacle-Aristea Nei giorni tuoi felici, offriva la possibilità di rappresentare il pathos. A volte nell’analisi delle diverse partiture si notano delle convergenze a livello di figure melodiche che sembrerebbero a prima vista inspiegabili, ma che in realtà sono probabilmente dovute al fatto che le opere circolavano in Italia grazie ai cantanti che le portavano di città in città. È probabile, quindi, che i compositori conoscessero le opere dei loro predecessori e, forse influenzati dal lo-ro ascolto, realizzassero le arie in modo analogo. Ciò sembra evidente da un raffronto tra il tema dell’aria Se cerca se dice realizzato da Vivaldi e da Pergolesi circa due anni dopo. Il compositore napoletano, pur modificando il metro passando dal 3/8 di Vivaldi al 2/4, mantenne, infatti, la stessa tonalità e la stessa linea melodica con un uso delle appoggiature che indulge al patetico.
L’articolo è tratto dal mio saggio, Che farò senze Euridice, M0nza, Casa Musicale Eco, 2016, pp. 104-111