Secondo quanto testimoniato dal suo maestro Giovanni Tebaldini, Pizzetti manifestò, sin dagli anni di studio, un certo interesse per tutte le forme vocali dalla pura monodia gregoriana fino all’ardita polifonia seicentesca. Non è un caso, infatti, che la produzione vocale sia da camera che nella forma sinfonico-corale, costituisca, insieme a quella strumentale, un altro importante filone parallelo ai drammi musicali. Le prime testimonianze di questo suo interesse per la musica vocale sono rappresentate da un’Ave Maria a tre voci miste con accompagnamento dell’organo, da un Tantum ergo per tre voci maschili e da Tenebrae factae sunt per sei voci miste, un responsorio per il Venerdì Santo; in questi lavori, tutti composti nel 1897 quando era ancora studente al Conservatorio, Pizzetti rivelò una solida conoscenza della produzione mottettistica e madrigalistica dei compositori italiani del Rinascimento.
L’interesse di Pizzetti per le forme monodiche trova interessanti manifestazioni in alcune liriche per canto e pianoforte composte nel primo decennio del Novecento e corrispondenti a piccoli esperimenti fatti dal compositore prima di accingersi alla composizione dei drammi musicali. Tra questi lavori giovanili, di cui ricordiamo Tre liriche (Vigilia Nuziale, Remember, Incontro di marzo), composte nel 1904 su testo del poeta parmense Ildebrando Cocconi, e La madre al figlio lontano composta nel 1910 su testo di Romualdo Pantini nella quale si percepisce qualche accento melodrammatico, spicca, insieme alla lirica I pastori, su testo di D’Annunzio, della quale si è già parlato in precedenza, Sera d’inverno del 1907 nella quale appare una precipua caratteristica dello stile pizzettiano nell’uso del pedale inserito per creare delle atmosfere di estatica sospensione. Superiore a questa produzione giovanile, sia per l’adesione al testo che per un certo lirismo, appare certamente San Basilio del 1912 il cui testo è costituito da una traduzione di Tommaseo di una poesia popolare greca, mentre un vero e proprio “preludio al dramma” può essere ritenuta la lirica Il Clefta prigione, composta nello stesso anno, nella quale il discorso musicale si fa serrato, non dà tregua al canto e non si compiace di inflessioni melodrammatiche. Nella lirica si possono riconoscere diversi episodi con stati d’animo altrettanto differenti che vanno dall’inizio discorsivo nel quale viene rievocata una festa pasquale, all’episodio del compianto fino alla catartica esaltazione del finale.
Anche la produzione corale di questo periodo testimonia il progressivo approccio di Pizzetti al dramma nonostante la permanenza di una scrittura essenzialmente lirica che non può non ricordare i cori per La Nave di G. D’Annunzio. Tra i lavori corali di questo periodo spiccano le Due canzoni corali (Un morto e La Rondine) e Canto d’amore, composti tra il 1913 e il 1914, dove alla vena lirica, che trova il suo libero sfogo nella freschezza primaverile della Rondine per sei voci miste e nei melismi del Canto d’amore, si contrappone il dramma rappresentato in Un morto, in cui la melodia si sviluppa lenta, quasi ieratica, con un’intonazione sillabica che raramente cede il posto a melismi e che sarà frequente nelle opere di Pizzetti. Questo lavoro anticipa la Messa di requiem, la cui partitura, iniziata il 1 novembre 1922, qualche mese dopo aver ultimato la Dèbora e Jaéle, fu completata il 2 gennaio 1923. In questo lavoro, come notato da Rodolfo Paoli:”c’è già la testimonianza viva e piena di un musicista originale e profondo che sa dare al coro una potenza espressiva a cui, lo si può ormai dire senza timore di essere smentiti, pochi nel nostro secolo sono ancora giunti”.
Il Requiem costituisce anche la testimonianza della sincera fede di Pizzetti che, da autentico cristiano, considera la morte non come il momento più altamente drammatico dell’esistenza umana giunta al suo epilogo, bensì come l’inizio di una nuova vita nella dimensione trascendente dell’eternità. Per questo il compositore ha rappresentato la morte con cristiana serenità, del tutto inedita rispetto a composizioni simili di altri precedenti musicisti che l’avevano considerata solo come il momento più drammatico della vita umana. Ciò è evidente nella scrittura musicale adottata da Pizzetti che si rivolge alla grande tradizione polifonica occidentale non disdegnando nemmeno l’introduzione di melismi, quasi del tutto assenti nella produzione drammatica dove l’urgere del dramma richiedeva uno stile sillabico, quasi parlato con ribattuti. Dal punto di vista musicale il Requiem per sole voci si compone di cinque parti: il Requiem con il Kyrie a cinque voci; il maestoso Dies irae, che inizia a quattro voci e si conclude ad otto parti e nel quale i melismi dei soprani secondi e dei tenori dissolvono in purissimo canto le ombre di paura che sembrano aleggiare nelle parti dei contralti e dei bassi; il grandioso Sanctus; il breve Agnus Dei e, infine, il Libera me, Domine, nel quale i soprani si producono in un mistico lirismo accompagnati dalle altre voci a cui sono affidate delle indeterminate quinte vuote.
Composti nello stesso periodo del Requiem, i Tre sonetti del Petrarca (La vita fugge; Quel rossignol; Levommi il mio pensiero) sono dei lavori che, come notato da Gatti, testimoniano un momento di crisi. La loro musica mostra un’eccessiva aderenza al testo che spesso nuoce alla freschezza del sentimento. La musica esprime le immagini evocate dalla poesia e ciò si nota anche negli altri lavori vocali da camera, come nelle Tre canzoni (Donna lombarda; La prigioniera; La pesca dell’anello) del 1926 per canto e quartetto d’archi e in Altre cinque liriche (Adjuro vos, filiae Jerusalem; Oscuro è il ciel; Augurio; Mirologio per un bambino; Canzone per ballo) per canto e pianoforte, dove la sezione lirica ritrova un maggiore equilibrio con quella drammatica. Tra gli altri lavori da camera ricordiamo, infine: Due poesie di Ungaretti (La Pietà e Trasfigurazione) per baritono, viola, violoncello e pianoforte; E il mio dolor io canto, composta nel 1940 su testo di J. Bocchialini per canto e pianoforte e, infine, Tre liriche del 1944 per canto e pianoforte (Bebro e il suo cavallo; Vorrei voler, Signor, quel ch’io non voglio; In questa notte carica di stelle) delle quali esiste anche una versione per orchestra.
Di diverso spessore sono, invece, il De Profundis composto per il Festival di musica di Venezia del 1937 per sette voci, che condivide con il Requiem l’approccio sereno di Pizzetti alla fede, e la cantata, Epithalamium, scritta nel 1939 in occasione delle nozze della figlia di un suo amico ed eseguita per la prima volta a Washington il 12 aprile 1940 e in Italia a Siena, presso l’Accademia Musicale Chigiana, il 14 luglio dello stesso anno sotto la direzione dell’autore. Si tratta di una cantata per soli (soprano, tenore e baritono), per un coro misto di 18 voci e per un’orchestra da camera, complessivamente di 31 esecutori il cui testo è tratto dai Carmina 61 e 62 di Catullo, i due componimenti che aprono il ciclo dei Carmina docta. Sono due epitalami, canti di nozze appunto, dai quali Pizzetti ha eliminato gli elementi licenziosi mantenendo, invece, quelli spirituali. Formalmente la cantata si articola secondo la classica alternanza di episodi corali, tra i quali spicca il coro delle vergini all’inizio, ed episodi solistici come l’aria del soprano (Hespere, quis caelo fertur crudelior ignis) nella quale emerge la grande perizia contrappuntistica del compositore in quanto la melodia affidata al soprano è contrappuntata sia dal violino solista che dal flauto.
Il presente articolo è tratto dalla mia monografia, Ildebrando Pizzetti “Il mio amore per il teatro”, Monza, Casa Musicale Eco, 2013.