Milano, Teatro alla Scala:”Orphée et Euridice”

Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2017/2018
ORPHÉE ET EURIDICE”
Azione drammatica in tre atti – Libretto di Pierre-Louis Moline da Ranieri de’ Calzabigi.
Musica di Cristoph Willibald Gluck
Orphée JUAN DIEGO FLOREZ
Euridice CHRISTIANE KARG
L’Amour FATMA SAID
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Compagnia di danza
Hofesh Shechter Company
Direttore Michele Mariotti
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Hofesh Shechter e John Fulljames
Scene e costumi Conor Murphy
Luci Lee Curran riprese da Andrea Giretti
Produzione Royal Opera House, Covent Garden, London
Milano, 6 marzo 2018
Il genio di Gluck torna alla Scala con il debutto di Orphée et Euridice nell’edizione parigina del 1774, importando il fortunato allestimento realizzato nell’autunno 2015 dalla Royal Opera House, comprensivo della stessa star protagonista, Juan Diego Florez. Una produzione che divise la critica ai tempi del debutto inglese, ma che siamo felici di apprezzare finalmente anche a Milano per l’indiscutibile interesse artistico che racchiudono titolo, cast e messinscena. Concepito all’insegna di una cruda essenzialità in linea con il soggetto, l’allestimento è opera a quattro mani del regista inglese John Fulljames e dell’israeliano Hofesh Shechter, responsabile anche delle suggestive coreografie eseguite dalla sua omonima compagnia, potente ed instancabile nei tre quarti d’ora complessivi di danze che – come sappiamo – nell’Orfeo francese assumono una rilevanza particolare. La Musica – di cui l’eroe mitico è incarnazione – assume un ruolo centrale ed è padrona assoluta della scena in una realtà atemporale fatta di solo spazio e luce in cui cantanti, coro, danzatori e la stessa Orchestra – posta non tradizionalmente in buca ma al centro del palco come in epoca gluckiana – fluttuano e si fondono senza soluzione di continuità in un unico vortice espressivo. E fluttuano letteralmente nell’asciuttissimo impianto scenico di Conor Murphy (che firma anche i costumi) il cui cuore è una pedana levitante sulla quale pone direttore e strumentisti, pensata per elevarsi sormontando un misterioso portico buio fino a potersi abbassare sprofondando in una sorta voragine infernale, con movimenti che ben accompagnano, nella sua verticalità, il viaggio di Orphée. Il tutto è sovrastato da enormi pannelli mobili in legno, trafitti dalle poetiche luci di Lee Curran che filtrano da una serie di oculi, rivelando ora con delicatezza ora con prepotenza l’oscurità dell’Oltretomba. Uno spazio sintetico e assoluto, dunque, che ben si presta ad accogliere e raccontare l’eternità del Mito. Nessuna particolare ambientazione storica, sovrastruttura, orpello: la regia vuole concentrarsi non tanto su una didascalica narrazione della vicenda, ma propone piuttosto uno sguardo intimo e diretto sulla psiche del protagonista. Ne è un indizio chiaro – e se vogliamo anche violento e invasivo, nel bene o nel male – il mancato lieto fine previsto dal libretto, riproponendo al calar del sipario un Orphée disperato come in principio di fronte alla tomba in fiamme di Euridice e suggerendo dunque che il ricongiungimento con l’amata non fosse altro che illusione, rimozione, evasione dalla realtà.
Nella sua insolita collocazione, l’
Orchestra del Teatro alla Scala rende tutto sommato giustizia alla partitura sotto la guida di Michele Mariotti, pur con tutti i limiti acustici e logistici del caso. La concertazione del direttore pesarese è più frizzante che improntata al lirismo (i tempi scelti sono a tratti anche eccessivamente frenetici), risultando comunque godibile, fresca e disinvolta. La coesione con coro e cantanti (pur dando loro le spalle) è buona, ma ad entusiasmare maggiormente sono le numerose pagine per sola orchestra con particolare riferimento alle danze (Danza delle Furie, Danza degli Spiriti Beati, Gran Finale). Nel complesso non è comunque semplice valutare la prestazione, in primis a livello dinamico: si ha l’impressione che, nonostante lo studio acustico fatto sui pannelli forati che sovrastano l’orchestra, una buona parte di suono – particolarmente nelle armoniche basse, perdendo di consistenza – venga inghiottita dagli oculi e mai più restituita in sala. Come sempre ottimo il Coro guidato da Bruno Casoni, disinvolto anche nel mescolarsi spesso e volentieri tra le fila dei danzatori come previsto dalla regia.
Padrone assoluto della scena è Juan Diego Florez nell’impervio ruolo di Orphée. Cucendosi splendidamente addosso i panni del protagonista in un perfetto equilibrio tra intento eroico e raccoglimento elegiaco, il tenore peruviano affronta la parte con naturale compostezza dall’inizio alla fine, nonostante l’onerosa scrittura da haute-contre per lui fin troppo acuta. In una performance da incorniciare sotto ogni punto di vista, due momenti d’oro a titolo d’esempio: Florez strappa i primi applausi a scena aperta cesellando con disinvoltura tutte le acrobatiche colorature dell’aria “L’espoir renaît dans mon âme”, trionfando nuovamente con un “J’ai perdu mon Euridice” da manuale per eleganza del fraseggio ed emissione cristallina dal pianissimo allo squillo in acuto. Affiancare l’eccellenza non è mai semplice, ma le due interpreti femminili non rimangono certo nell’ombra portandosi a casa due prove davvero ottime. Christiane Karg è un’Euridice di rara dolcezza, a partire dalla sua aria “Cet asile aimable et tranquille” nella quale possiamo immediatamente apprezzare un gradevole timbro morbido. Ma più interessante ancora diventa nel lungo scambio con Orphée nell’Atto III, delineando con grande intenzione espressiva tutti i moti d’animo che confondono Euridice nell’incontro con l’amato. Splendido in questo senso soprattutto il duetto “Viens, suis un époux qui t’adore!” – in un intrecciarsi perfetto tra le due vocalità – e struggente il recitativo a seguire con i sussulti inquieti del “Je frémis… Je languis… Je frissonne… Je tremble… Je pâlis…” (Fremo… Languisco… Rabbrividisco… Tremo… Impallidisco…). Eccellente l’Amour di Fatma Said, ex allieva del Teatro alla Scala già applaudita due anni fa al Piermarini in Die Zauberflöte. Accattivante vocalmente e spigliata in scena facendosi spesso largo tra gli orchestrali nel suo sgargiante tailleur dorato, canta con partecipazione e musicalità le sue due arie “Si les doux accents de ta lyre” e “Soumis au silence”. Eccellenti i suoi interventi nel terzetto “Tendre amour, que tes chaînes”. Al termine della recita, gli oltre dieci minuti di applausi per tutti i protagonisti e le ovazioni all’indirizzo di Florez confermano meritatamente un successo annunciato.