Verona, Teatro Ristori, Danza – Stagione 2017/2018
“BOLERO”
coreografia Michele Merola
musica Maurice Ravel, Stefano Corrias
disegno luci Cristina Spelti
costumi Alessio Rosati con la collaborazione di Nuvia Valestri
interpreti Paolo Lauri, Fabiana Lonardo, Enrico Morelli, Giovanni Napoli, Nicola Stasi, Gloria Tombini, Lorenza Vicidomini
“GERSHWIN SUITE” PRIMA ASSOLUTA
coreografia Michele Merola
musiche George Gershwin
disegno luci e coreografie Cristina Spelti
costumi Carlotta Montanari
interpreti MM Contemporary Dance Company
Verona, 8 febbraio 2018
Con in testa il pensiero alle intense espressioni di Elisabetta Terabust, scomparsa da pochi giorni, a cui lo spettacolo è dedicato, assistiamo all’epifania di un’immagine che sembra proiettata: un duetto maschile, molto intimo, racchiuso in uno spazio angusto, delimitato da fasci di luce. Un’apparizione di movenze piuttosto rarefatte come l’accompagnamento sonoro che le sottende, che riconosciamo richiamare da lontano il Bolero di Ravel. Questi colpi di tamburo (Stefano Corrias) danno inizio a quell’alternarsi di situazioni affatto allegoriche che prendono il palco e catturano la nostra attenzione restituendoci una visione di noi stessi; del caleidoscopio dei rapporti umani. Un preludio che sottolinea l’intento artistico di offrire un contributo all’arte della rappresentazione, dapprima con l’ausilio della musica di Ravel, poi con l’aiuto della pittura di Edward Hopper, ovvero una dichiarazione di impegno per l’emancipazione della danza: uno dei più alti congegni espressivi, che va dall’ossessione per la perfezione della Terabust ai meccanismi della messa in scena di Merola. Allora ci è chiaro che per questo duetto coreografico è stato fondamentale il connubio tra il gesto e la luce, rispettivamente di Michele Merola e di Cristina Spelti, perché proprio quello che non è immediatamente identificabile va intuito e suggerito, addirittura ricostruito con gran dose di cultura e savoir-faire.
Il refrain ossessivo e fortemente seduttivo della più famosa composizione di Ravel commenta gli approcci umani, come in un’indagine prossemica, dal solo al corale in un continuo crescendo all’unisono col supporto musicale. Un approccio con l’altro, in sostanza, che non si accende da uno sguardo, ma da una vicinanza e diventa desiderio che viene appagato fin tanto che non si traduce in un sentimento affettivo, allora viene allontanato, come spinto via. La metafora della quinta mobile a soffietto, che richiama una camera oscura fotografica, è un luogo entro cui vanno a nascondersi le nostre insicurezze: un rifugio e un riparo dalle incomprensioni, una sorta di zona franca dello spirito affinché non si corrompa. Tutta la coreografia del Bolero (premio Europaindanza 2017) è brillantemente equilibrata, nel binomio luce e ombra, dal nero al bianco, dal molto piano del prologo intravisto e segreto al fortissimo dell’epilogo nel quale i ballerini molleggiano, balzando sul posto, a richiamare alla mente le note musicali che scorrono sul pentagramma.
Per la coreografia Gershwin Suite, in prima assoluta e coprodotta dal Teatro Ristori per la MM Contemporary Dance Company, il mood diviene ancora più raffigurato grazie a un tappeto musicale dedicato alle più belle sinfonie del compositore newyorchese (fra tutte, Summertime) ispiratore del genere musical (in effetti questa seconda coreografia della serata apre proprio su un chorus-line di grande effetto) e ai quadri di Edward Hopper che, sopra di esse, vengono letteralmente allestiti sul palco. Due sono le scene che si fanno ricordare, proprio perché ritroviamo addirittura in una esattamente ricomposto un quadro (People in the sun), dal momento in cui cinque danzatori vanno a occupare ognuno una sedia per rilassarsi al tepore di un sole inaspettato, quanto desiderato. La strategia di Merola di far passare di mano in mano il cappello di paglia che finisce per calarsi in testa la signora col foulard rosso è un espediente cinematografico che si usa per accompagnare l’attenzione dello spettatore da una scena all’altra: un piano sequenza. Ebbene, questo intento narrativo è giustamente azzeccato perché chi guarda la coreografia si domanda, come davanti al quadro, quale sia il legame che unisce queste persone e se lo chiede fino all’attimo in cui capisce che non ha importanza, quanto invece lo abbia il fatto che queste persone non comunicano tra di loro e quello che assiste è l’ensemble delle loro solitudini. L’altra scena degna di nota è il tableau vivant che danza sulla “Soirbleu” in cui stavolta risalta dal quadro il pierrot, metafora della tristezza, insieme a tutta la sua alienazione rispetto al contesto. Qui addirittura Merola cita Hopper che cita a sua volta Degas per quell’ossessione nel ritrarre personaggi in uno spazio pubblico, soli e assorti nei loro pensieri (La bevitrice di assenzio). Vediamo che il pierrot viene isolato in una stanza formata da grandi tele girate (ne vediamo il telaio di legno) che fanno da pareti, che lo contengono tridimensionalmente in uno spazio che poi è esattamente quello bidimensionale della rappresentazione pittorica. Il tutto per evidenziare l’inquietudine e la desolazione, insomma quelle che può immaginare chi ascolta “Rapsodia in blu“, quell’imponente melodia di Gershwin che apre il sipario a un mondo per quell’andamento apparentemente libero, in realtà narrativamente equilibrato e carico di aspettative. (foto Tiziano Ghidorsi)