Venezia,Teatro Malibran, Lirica e balletto, Stagione 2017-2018
“LE METAMORFOSI DI PASQUALE”
Farsa giocosa per musica. Libretto di Giuseppe Foppa.
Musica di Gaspare Spontini
Il barone FRANCESCO BASSO
Costanza MICHELA ANTENUCCI
Il cavaliere/Un sergente CHRISTIAN COLLIA
Lisetta IRINA DUBROVSKAYA
Il marchese GIORGIO MISSERI
Frontino CARLO CHECCHI
Pasquale ANDREA PATUCELLI
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore e maestro al clavicembalo Gianluca Capuano
Regia Bepi Morassi
Scene, costumi e luci Scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia
Scene Piero De Francesco
Costumi Elena Utenti
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in coproduzione con Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi
Venezia, 23 gennaio 2018
È andata in scena al Malibran – prima rappresentazione in tempi moderni – la farsa in un atto Le metamorfosi di Pasquale – una delle quattro partiture di Gaspare Spontini recentemente ritrovate in Belgio – nell’edizione critica a cura di Federico Agostinelli, realizzata su iniziativa della Fondazione Pergolesi Spontini con il contributo del Centro Studi per la Musica fiamminga e della Provincia di Anversa. Il 16 gennaio 1802, l’atto unico di Gaspare Spontini fu rappresentato al Teatro San Moisè di Venezia con moderato successo. Sarebbe stato l’ultimo lavoro del Marchigiano per le scene italiane, prima di trasferirsi a Parigi e poi a Berlino. Destino volle che l’opera, insieme ad altre dell’autore, andasse successivamente perduta, restando, comunque, disponibile il libretto di Giuseppe Foppa. Il ritrovamento del manoscritto delle Metamorfosi di Pasquale, oltre a quelli relativi ad altre due opere buffe e a una cantata, sempre di Spontini, nella biblioteca del castello dei Conti d’Ursel a Hingene, nelle Fiandre – dove giunsero probabilmente tramite Sabine Franquet de Franqueville, moglie del duca Roberto d’Ursel, nonché discendente di Céleste Érard, moglie di Spontini – è stato annunciato nel giugno 2016 dalla contessa Ursula d’Ursel, insieme ai ricercatori della biblioteca del Conservatorio Reale di Anversa. Il termine “metamorfosi”, che compare ampollosamente nel titolo, si riferisce ai soliti travestimenti di un personaggio farsesco. Pasquale, già servitore del barone e di sua figlia Costanza, dopo aver cercato fortuna all’estero, torna in Italia, nella sua città natale, per riconquistare la sua ex fidanzata Lisette, cameriera di Costanza, ignorando che nel frattempo la ragazza amoreggia con Frontino, servitore del marchese del Colle. Il marchese, a sua volta, ama – corrisposto – Costanza, essendo però osteggiato dal padre di lei. Il protagonista, assopitosi sotto un albero accanto alla propria casacca, è notato dal marchese, che – braccato dalle guardie, per aver partecipato a un duello alla pistola con il cavaliere del Prato, pretendente ufficiale di Costanza, peraltro rifiutandosi di colpire il rivale – indossa la casacca di Pasquale, lasciando a terra la propria, insieme a cappello e spada. Una volta svegliatosi, Pasquale non esita ad approfittare della situazione, mettendosi nei panni del nobile, con tutti gli equivoci, che ne conseguono … fino a quando – dopo un secondo travestimento, questa volta da donna – deve accettare la sconfitta, e unirsi a quanti inneggiano alle doppie nozze, tra Lisetta e Frontino e tra Costanza e il marchese (dopo che il cavaliere, riconoscente per aver avuta salva la vita, ha ritirato ogni pretesa). Come si può capire anche da questa sommaria sintesi, si tratta di una trama alquanto debole, che utilizza i tòpoi più collaudati per non dire triti e ritriti, della farsa. Ne era consapevole Bepi Motrassi, assumendo il compito di curare la regia dello spettacolo. Forte della sua esperienza nell’allestimento di un tal genere di pièces teatrali, il regista ha inteso rendere più credibile la non esaltante trama e meglio definiti i personaggi, ambientando la vicenda a Napoli – città non citata dal libretto, ma suggerita dal carattere stesso dell’opera – all’inizio del Novecento, in un periodo non ancora funestato dagli orrori della guerra, pur imminente, e almeno apparentemente spensierato e vitale, di cui si vede sulla scena uno dei simboli più tipici: il Café chantant. In tale contesto, tra il Liberty e il varietà, in cui fanno capolino personaggi legati al teatro di Eduardo Scarpetta, il barone, padre di Costanza, diventa il proprietario di uno di questi caffè, il cavaliere ricorda il Fefè “sciupafemmine”, mentre lo stesso Pasquale ha qualcosa dello squattrinato, e perennemente affamato, Felice Sciosciammocca di Miseria e Nobiltà, come attesta, ad esempio, nel finale dell’opera, una breve citazione della scena degli spaghetti mangiati con le mani, come fa Totò nella celeberrima versione cinematografica diretta da Mario Mattoli. L’intento di rendere più vivace, credibile e intrigante l’azione ha spinto il regista a imporre dei tempi scenici piuttosto serrati, peraltro assecondati dal gesto direttoriale, e a impegnare i personaggi in tutta una serie – forse ridondante – di trovate, attinte al repertorio dell’avanspettacolo, con il contributo anche di una nutrita schiera di mimi, a rappresentare il viavai di clienti. Ne risulta un’azione scenica particolarmente vivace, inserita nella tradizione buffa – come, peraltro, altri spettacoli firmati nel passato dal regista veneziano –, al cui carattere brillante hanno contribuito i colorati costumi di Elena Utenti, insieme alle essenziali scene di Piero De Francesco e alle calde luci; il tutto realizzato dagli allievi della Scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Come abbiamo sottolineato, l’esecuzione musicale era coerente rispetto alla regia. In effetti il giovane maestro Gianluca Capuano propone una lettura della partitura, in base alla quale si mette in evidenza la perfetta adesione di quest’ultima ai canoni del genere farsesco – molto in voga in laguna tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento –, caratterizzato da un legame particolarmente stretto tra musica e azione scenica, e nello stesso tempo si dà anche adeguato risalto a certe raffinatezze musicali di Spontini a livello armonico e contrappuntistico, oltre che nell’orchestrazione. Fin dalla sinfonia, proposta con sensibilità e senso del colore, si è colto il valore di questo direttore, emerso anche nel perfetto equilibrio tra voci ed orchestra, per non parlare della calibrata concertazione nelle scene d’insieme. Quanto ai cantanti, Andrea Patucelli ha offerto un Pasquale accattivante e spigliato sia nel fraseggio che nel gesto scenico – mai esagerato –, rivelando una vocalità baritonale adeguata ad una linea di canto mai spinta all’estremo. Mattatrice della serata è stata, comunque, Irina Dubrovskaya nel ruolo di Lisette, che ha affrontato con successo il suo ruolo tecnicamente più arduo, qualificandosi come un valido soprano leggero, in possesso di voce potente e timbricamente pura, dalla tessitura estesa verso la zona acuta, pur con qualche sporadica fissità nell’intonazione delle note più impervie. Generalmente ben caratterizzati – nei limiti di questo genere di teatro musicale – sono apparsi gli altri personaggi, grazie alle adeguate prestazioni dei rispettivi interpreti, a livello vocale e gestuale: Giorgio Misseri (il marchese), Michela Antenucci (Costanza), Carlo Checchi (Frontino), Francesco Basso (il barone), Christian Collia (il cavaliere del Prato/ un sergente). Grandi applausi e festeggiamenti a fine serata, per i protagonisti e per tutti gli altri. Foto Michele Crosera