Pietro Trapassi, il cui cognome fu grecizzato in Metastasio da Gian Vincenzo Gravina, uno dei fondatori dell’Arcadia e suo protettore, fu non solo poeta, ma autore di numerosi testi melodrammatici destinati ad essere musicati più volte da famosi compositori, tra cui Gluck, Galuppi, Scarlatti, Paisiello e Mozart. Il suo scopo prevalente fu quello di rivalutare il testo letterario completamente dipendente, fino a quel momento, dalle esigenze musicali e di dare un impianto drammatico più solido all’opera caratterizzandola maggiormente in senso tragico o eroico, eliminando qualsiasi elemento comico o popolare, ma riconoscendo che il testo, pur nella sua autonomia poetica, doveva essere funzionale alla partitura musicale. Egli, consapevole che i suoi drammi avrebbero trovato la loro completa realizzazione soltanto se uniti alla musica e al canto, elaborò uno schema fisso di scena drammatica, derivato dalla tragedia classica, nel quale era assente lo scontro drammatico di passioni violente; così separò l’azione, affidata a lunghi recitativi, dalla lirica caratteristica delle arie, divise il dramma in tre atti, ridusse i duetti, i cori e il numero dei personaggi tra i quali vi era sempre un eroe che, nel nome della morale e del dovere, era pronto a sacrificare i suoi affetti, le sue passioni. Infine modificò lo scioglimento finale non più affidato all’intervento dall’alto con l’apparizione di qualche divinità o con la recita di un oracolo, ma allo stesso protagonista che portava a compimento l’azione o con qualche scena di agnizione o con un atto di grazia e di generosità. Metastasio, tuttavia, non rinunciò completamente al lieto fine perché solo tre libretti hanno un finale tragico: Didone abbandonata, Catone in Utica, Attilio Regolo. Il poeta, con grande perizia, seppe alternare la varietà degli stati d’animo tenendo conto anche delle esigenze artistiche e tecniche dei cantanti e impresse una coerenza drammatica con la distribuzione, tra i vari atti, delle arie alle quali affidò la funzione di esprimere i sentimenti e gli stati d’animo dei protagonisti; ad esse dedicò particolare cura stabilendo che il loro numero fosse contenuto fra 25 e 30, che non vi fosse una loro successione di uguale colore, che a uno stesso personaggio non ne fossero assegnate due consecutive esprimenti lo stesso stato d’animo e che fossero collocate strategicamente alla fine della scena per permettere all’artista di ricevere gli applausi del pubblico. Inoltre, a differenza di altri librettisti che lo precedettero, ne curò la struttura metrica preferendo versi di un solo metro, quasi sempre il settenario combinato, a volte, con il quinario. Un esempio significativo di distribuzione delle arie ci è dato dal dramma L’Olimpiade, uno dei suoi libretti più musicati, in cui è possibile evidenziare i caratteri tipici del dramma come l’esaltazione dell’amore, della fedeltà e dell’amicizia in una vicenda ambientata in un tempo mitico durante i giochi olimpici. Licida s’innamora della figlia del re Clistene, Aristea, che ama, ricambiata. Megacle, fedelissimo amico di Licida al quale deve anche riconoscenza per essere stato salvato una volta. I due amici si recano ai giochi olimpici dove il re Clistene promette in moglie la figlia al vincitore. Licida, allora, prega l’amico di gareggiare in suo nome e Megacle, superati i dubbi sull’amore e l’amicizia, combatte per l’amico e vince. Aristea deve allora sposare Licida con grande dolore della pastorella Argene a cui il giovane aveva promesso prima il suo amore. Intanto Megacle, riconosciuto da Aristea, è costretto a rivelare l’inganno, e a partire. Licida, credendo Megacle morto, tenta di uccidere il re Clistene, ma, quando sta per essere condannato a morte, si scopre che egli è Filindo, figlio di Clistene, creduto morto. Così Megacle sposa Aristea e Licida Argene.
Inoltre Metastasio, per imprimere ai versi delle arie una precisa atmosfera emotiva, ricorse spesso a vocaboli idonei a suggerire raffigurazioni musicali illustrative, come si può notare nell’aria Per lei fra l’armi, tratta dal Demofoonte, in cui figurazioni ritmiche e melodiche, vocali e strumentali, sono suggerite dal testo in modo tale che la tempesta è rappresentata con tremoli degli archi, le onde con un flusso ininterrotto di semicrome, i fulmini con rapide scale ascendenti e discendenti, la caccia con corni e la guerra con trombe e timpani. La stessa struttura dei versi metastasiani offriva al musicista la possibilità di introdurre formule musicali che si ripetevano e di organizzare le melodie da un punto di vista fraseologico. La riforma di Metastasio, considerata innovativa e rivoluzionaria, incontrò notevoli difficoltà ad essere realizzata per l’incapacità dei suoi numerosi imitatori, ma fu oggetto di elogi da parte della critica. Ranieri de’ Calzabigi, nella sua Dissertazione su le poesie drammatiche del Sig. Abate Pietro Metastasio esaltò la poesia e la coerenza strutturale dei drammi metastasiani:
“Le poesie del Signor Metastasio adornate di musica sono poesie musicali; ma senza l’unione di questo ornamento, sono vere, perfette e preziose tragedie, da compararsi alle più celebri di tutte le altre nazioni: tragedie corredate di unità, di costume, di interesse, di sublime linguaggio poetico, di spettacolo, di meravigliosi accidenti, di maneggio singolare di passioni; e tal, che per sé sole, senz’altro artifizio, che nell’animo meglio le insinui, e penetrare destramente le faccia, risvegliano a seconda di ciò che esprimono il terrore, la compassione, l’amore, la pietà; e vanno al gran fine di emendare i vizi, e di accender le menti al conseguimento delle virtù: quali oggetti si sono prefissi nella Tragedia i Greci, i Latini, i Francesi e gli Inglesi, alcuni de’ quali ha il signor Metastasio eguagliati, ed altri di gran lunga superati”[1].
Dalle osservazioni di Calzabigi derivò probabilmente la questione se i lavori di Metastasio dovessero essere considerati tragedie, drammi per musica o entrambe le cose e, a tal fine, è chiarificatore quanto scrissero Voltaire e Francesco Algarotti a tale proposito. Il primo, valutandone le opere, affermò:
“Où trouver un spectacle qui nous donne une image de la scène grecque? C’est peut-être dans vos tragédies, nommées opéras que cette image subsiste. Quoi! Me dira-t-on, un opéra italien aurait quelque ressemblance avec le théâtre d’Athènes? Oui. Le récitatif italien est précisement la mélopée des anciens; c’est cette déclamation notée et soutenue par des instruments“[2].
E Algarotti confermò dicendo: L’opera non è altro in sostanza che una tragedia recitata per musica[3]. Da queste affermazioni e da altre fatte da letterati anche in periodi successivi si deduce che le opere di Metastasio erano drammi musicali non adatti alla sola declamazione; d’altra parte lo stesso poeta e musicista era stato consapevole di aver scritto i suoi drammi pensando alla musica, come si legge in una lettera del 21 febbraio 1750 indirizzata ad una contessa napoletana: Io non so scrivere cosa ch’abbia ad esser cantata, senza bene o male immaginarne la musica[4], parole queste confermate dal letterato livornese e grande librettista Ranieri de’ Calzabigi che, a sua volta, scrisse:
“dalla maestà, energia e brillanti immagini della poesia del signor Metastasio, dipende a mio parere la forza, varietà e bellezza della nostra musica”[5].
Una diretta conseguenza della riforma metastasiana fu l’affermazione di due generi teatrali autonomi: il serio e il comico.
[1] R. De’ Calzabigi, Poesie, Vol. II, Nella Stamperia dell’Enciclopedia, Livorno 1774, p. 151.
[2] Voltaire, Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne, in Oeuvres complètes, Vol. IV, Théâtre, Parigi, 1881, p. 179: «Dove trovare uno spettacolo che ci dia l’immagine della scena greca? È forse nelle vostre tragedie che chiamate opere che questa immagine sussiste? Che! Mi si risponderà: un’opera italiana avrà qualche somiglianza con il Teatro d’Atene? Sì, Il recitativo italiano è precisamente la melopea degli antichi; è quella declamazione sulle note e sostenuta dagli stromenti musicali».
[3] F. Algarotti, da Saggio sopra l’opera in musica, Livorno, 1763 p. 17.
[4] La lettera è citata in E. Surian, Storia della musica, Rugginenti, Milano 1999, pp. 363-364.
[5] R. De’ Calzabigi, op. cit., p. 152.
Questo breve articolo è tratto dal mio saggio, Che farò senza Euridice? Il teatro musicale in Europa nei secoli XVII e XVIII, Monza, Casa Muiscale Eco, 2016, pp. 44-47