Bari, Teatro Petruzzelli, stagione lirica 2018
“DER FLIEGENDE HOLLÄNDER”
Opera romantica su libretto di Richard Wagner
Musica di Richard Wagner
L’Olandese TÓMAS TÓMASSON
Senta MAIDA HUNDELING
Erik BRENDEN GUNNELL
Daland YORCK LELIX SPEER
Mary KISMARA PESSATTI
Der Steuermann CAMERON BECKER
Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli
Direttore Giampaolo Bisanti
Maestro del coro Fabrizio Cassi
Regia scene e costumi Yannis Kokkos
Assistente di regia Stephan Grögler
Luci Guido Levi
Video Eric Duranteau
ripreso da Daniele Naldi
Allestimento Teatro Comunale di Bologna
Bari, 26 gennaio 2018
Finalmente anche a Bari si ääesegue l’Olandese volante, fino ad oggi mai rappresentato. Anni addietro il pubblico del capoluogo pugliese potette ascoltare l’intera tetralogia wagneriana e la positiva risposta di allora ha invitato oggi il sovrintendente Massimo Biscardi a scommettere su Wagner per inaugurare la stagione lirica 2018. L’allestimento scenico è quello del comunale di Bologna che nel 2000 ospitò per la prima volta la regia di Yannis Kokkos poi ripresa in varie occasioni e in diversi altri teatri. Kokkos nasce come scenografo e non a caso punta in primo luogo alla suggestione visiva – incrementata dalle ottime luci di Guido Levi – riuscendo a impressionare il pubblico sin dalla scena iniziale con i marinai che affrontano la tremenda tempesta. Un enorme specchio riflette ciò che avviene sulla scena, sovvertendo la prospettiva con la quale da sempre si osserva un melodramma. L’orizzontalità diventa sghemba e segue linee oblique; l’azione si sdoppia, metaforizzando così la dialettica tra sogno e realtà, tra il mondo borghese e concreto di Daland e quello idealistico dell’Olandese e di Senta. I personaggi non sono solo rovesciati e distanziati ma anche moltiplicati e osservati dall’alto, secondo una visuale che compete a un narratore onnisciente. Ogni realtà solida, pare dirci Kokkos, trae origine da un’essenza liquida sotterranea, latente e in continuo movimento, analoga alle onde di quel mare che tormenta il protagonista, colpevole di un atto di superbia faustiana. Sui giochi di sdoppiamento agiscono poi le videoproiezioni, incaricate di materializzare il sogno e tutto quello che è precluso agli occhi della ragione (il vascello prima, le stive dove è stipato l’equipaggio fantasma poi). Il lavoro del regista greco naturalizzato francese funziona come un’opera d’arte contemporanea, un’installazione che rielabora l’Olandese di Wagner in termini puramente visivi. Nonostante Kokkos affermi che la «scenografia non tenta di realizzare un’immagine immutabile, ma chiede una rappresentazione che debba vivere; è un lavoro sulla durata. La misura del tempo è l’attore», non ha saputo far aderire la musica al gesto, lavorando con i cantanti per far sì che i loro movimenti avessero un senso in relazione al dramma. Al contrario gli interpreti parevano abbandonati a se stessi nel tentativo di trovare una collocazione spaziale; e questo abbandono ha portato da un lato ad un eccesso di staticità, dall’altro a un andirivieni poco meditato. L’uniformità dei costumi, tutti neri, non è servita a segnare in termini cromatici la differenza tra marinai in carne ed ossa e quelli spettrali e ha lasciato prevalere l’esigenza squisitamente estetica del bel quadro d’insieme ma non certo le istanze di un dramma romantico tutto giocato sull’esasperazione del dualismo e delle opposizioni nette tra visioni del mondo: l’una materialista, l’altra idealista. Kokkos pare non aver compreso che la morte di Senta in realtà è un’apoteosi e che pertanto non poteva lasciarsi morire come un’eroina del coevo melodramma italiano dopo essersi vista chiudere sotto i piedi la botola che conduceva alla stiva del vascello fantasma. Pure in questo caso questa scelta è stata dettata dal fatto che con la protagonista stesa a terra sull’enorme botola chiusa si veniva a creare uno spazio di proiezione dove far vedere al pubblico la nave spettrale a mo’ di ologramma siflesso nel fondale a specchio. Insomma, ancora una volta un puro gioco di fascinazione visiva che in questo caso s’imparentava finanche con certi spettacoli dell’illusionista David Copperfield. Beninteso il tutto si dimostra di una bellezza sconcertante ma ci si chiede se renda un servizio a Wagner e alla sua idea di dramma musicale.
Fortunatamente le lacune a livello di consapevolezza melodrammaturgica mostrate dalla regia, sono state compensate dalla bravura di un cast ben preparato, all’interno del quale ha brillato il soprano Maida Hundeling, una Senta impeccabile, dotata di una potenza vocale cui si coniugava l’abilità nei filati e una grazia di movimenti, nonché la conoscenza profondissima del fraseggiare wagneriano. Molto buono anche l’Erik di Brenden Gunnell (peccato alcuni cedimenti negli acuti proprio a un passo dalla conclusione della sua parte!) che ha ben reso la lacerazione e la natura doppia di quel personaggio attraverso la sua stessa vocalità, tendente al tenore di grazia ma al tempo stesso corposa e potente. Piuttosto statico sul piano scenico l’Olandese di Tòmas Tòmasson che ha caratterizzato il protagonista all’insegna di un nobile e sdegnoso distacco. Nel secondo atto un certo sforzo nell’emissione degli acuti ha portato qualche neo a un’interpretazione nel complesso ben condotta. Notevole il Daland di Yorck Felix Speer capace di trasmettere al pubblico il lato grottesco del personaggio senza eccedere in eccessi caricaturali. Buone le parti secondarie di Mary affidata a Kismara Pessatti (a tratti è risultata un poco ingolata) e del timoniere interpretato dalla voce squillante di Cameron Becker. Più che meritoria la prova del Coro del Petruzzelli che conferma un livello qualitativo altissimo, così come quella dell’Orchestra, mai come in quest’occasione smagliante nei suoi volumi sonori (qui finalmente degni dell’enormità di un politeama che agli inizi del Novecento nacque per ospitare gli organici oceanici del melodramma italiano ed europeo assurto ormai a fenomeno nazionalpopolare). Ottimo il lavoro condotto sul podio da Giampaolo Bisanti al suo debutto con la musica di Wagner e proprio per questo meritevole dei più sinceri elogi e degli auguri di cimentarsi presto con altri titoli. Un’ultima considerazione: il breve e unico intervallo collocato dopo il primo atto ha individuato un compromesso tra l’idea primigenia di atto unico senza soluzione di continuità e la più tradizionale divisione in atti (che lo stesso Wagner dovette accettare nelle rappresentazioni di Dresda), compromesso che ha sfatato, presso gran parte dell’uditorio, il pregiudizio sulla durata spropositata dell’operismo wagneriano. È forse giunto il momento di restituire a quella straordinaria drammaturgia musicale quel riconoscimento da parte del grande pubblico che in Italia si registrò tra Otto e Novecento e che nel secondo Novecento si è perso. Viva Verdi, certo, ma oggi si è pronti anche al Viva Wagner. Foto Immagina Studio Fascicolo