Nel 1888 l’editore milanese Edoardo Sonzogno indisse un concorso per giovani compositori le cui opere non erano mai state rappresentate. Essi dovevano presentare un’opera in un atto che sarebbe stata giudicata da una giuria formata da cinque personalità importanti fra critici e compositori e il premio consisteva nell’organizzazione della rappresentazione delle prime tre classificate a spese dell’editore. Umberto Giordano presentò Marina un lavoro in un atto che aveva scritto mentre studiava ancora al Conservatorio San Pietro a Majella, ma questa ebbe soltanto una menzione d’onore in quanto nel mese di marzo 1890 furono proclamate vincitrici Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, Labilia di Niccola Spinelli e Rudello di Vincenzo Ferroni. L’opera di Giordano, tuttavia, suscitò l’interesse di Amintore Galli, consulente musicale della casa editrice, il quale convinse l’editore a commissionare un’opera al giovane compositore. Sulla scia del successo di Cavalleria rusticana, Giordano cercò un soggetto affine e rivolse la sua attenzione a Mala vita di Salvatore Di Giacomo e Goffredo Cognetti, lavoro a sua volta basato su O’ voto di Di Giacomo. Sonzogno affidò la stesura del libretto a Nicola Daspuro il quale, nel convertire il lavoro in prosa in dialetto napoletano in versi italiani, si mantenne molto fedele all’originale, riducendo soltanto il primo atto per stringere l’azione. Nacque così Mala vita, la cui première, il 21 febbraio 1892 al Teatro Argentina di Roma con Roberto Stagno (Vito) e Gemma Bellincioni (Cristina), ebbe uno strepitoso successo. La critica, tuttavia, manifestò qualche perplessità, come si evince da quanto scrisse Attilio Luzzato su «La Tribuna» il 23 febbraio 1892 in un articolo nel quale criticava aspramente la nascente moda verista senza risparmiare nemmeno Cavalleria rusticana.
Un’accoglienza più fredda fu riservata all’opera al San Carlo di Napoli il 26 aprile dello stesso anno probabilmente perché metteva in cattiva luce alcuni ambienti napoletani e i personaggi apparivano privi di moralità.
L’opera ebbe una sorte diversa in altri teatri italiani tra cui Bologna e Milano e a Vienna rappresentata in occasione dell’esibizione internazionale di musica e teatro alla quale parteciparono opere di compositori facenti capo alla casa editrice Sonzogno, tra cui Cavalleria rustica, L’amico Fritz e Pagliacci.
L’insuccesso di Napoli spinse, tuttavia, Giordano e il librettista a rielaborare l’opera modificando i personaggi e, in questa versione, andò in scena nel 1897 col titolo Il voto, diretta da Giuseppe Baroni e con Enrico Caruso e Rosina Storchio.
L’opera
La vicenda è ambientata a Napoli nel 1810 poco prima del Festival di Piedigrotta.
Atto primo. Il tintore Vito è l’amante di Amalia, moglie di Annetiello. Il giovane, malato di tisi, ha paura di morire e fa un voto al Crocifisso promettendogli che avrebbe sposato la prima prostituta incontrata per redimerla. Alla fontana incontra Cristina che una volta gli aveva gettato dalla finestra una rosa e le propone il matrimonio. La giovane, desiderosa di cambiare vita, accetta, ma Amalia non intende perdere il suo amante.
Atto secondo. Amalia convoca nella sua casa Cristina per chiederle di troncare i suoi rapporti con Vito dal momento che non può vivere senza di lui e al rifiuto di Cristina che non vuole perdere l’unica speranza di salvezza, passa alle minacce. Cristina va via ed entra Vito che viene nuovamente sedotto da Amalia, mentre Cristina da fuori vede i due baciarsi.
Atto terzo. Sono iniziate le feste di Piedigrotta con un coro (Ce sta ce sta un mutto ca dice accussì il cui testo è attribuito dal librettista allo stesso Salvatore Di Giacomo. Cristina è disperata e cerca di convincere Vito a sposarla, ma egli le risponde che non riesce a resistere alle seduzioni di Amalia. La donna abbandonata e consapevole di non avere alcuna speranza di redenzione prega il Signore, mentre fuori è in pieno svolgimento la festa.
L’opera, pur presentando un soggetto moderno e verista, musicalmente appare ancora innervata nella tradizione ottocentesca dal momento che presenta al suo interno pezzi chiusi come arie e concertati la cui scrittura, nonostante qualche armonia moderna, non è molto lontana dai compositori della prima metà del XIX sec., come si può vedere notare nel concertato che conclude il primo atto O Vito sei tu sceso dal Cielo. Un tocco di colore locale, che forse nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto dare una connotazione verista, è presente nella canzone in dialetto napoletano Ce sta, ce sta nu mutto intonata da Annetiello a cui risponde il coro.
Il libretto dell’Opera