Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Stagione lirica 2017/18
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal romanzo “La dame aux camélias” di Alexandre Dumas.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry JESSICA NUCCIO
Flora Bervoix ANA VICTÓRIA PITTS
Annina MARTA PLUDA
Alfredo Germont MATTEO LIPPI
Giorgio Germont SERGIO VITALE
Gastone RIM PARK
Barone Douphol DARIO SHIKHMIRI
Marchese d’Obigny QIANMING DOU
Dottor Grenvil ADRIANO GRAMIGNI
Giuseppe FABRIZIO FALLI
Un domestico di Flora NICOLA LISANTI
Un commissionario LISANDRO GUINIS
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Sebastiano Rolli
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Alfredo Corno
Scene Angelo Sala
Costumi Alfredo Corno, Angelo Sala
Luci Alessandro Tutini
Coreografia Lino Privitera
Allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 2 dicembre 2017
Cinematografica, alla maniera di Fellini, vivida, come il carnevale parigino, popolare, come la trilogia di cui fa parte: è “La traviata” del Maggio Musicale Fiorentino, ripresa dalle ultime stagioni estive a Palazzo Pitti. Spogliata della cornice per la quale era stata ideata, la messa in scena soffre un po’ le vaste dimensioni del nuovo palco, in cui è facile disperdere il focus della serrata finzione scenica, che tanto aveva caratterizzato questa produzione nell’intimo spazio del Cortile dell’Ammannati. In questo senso, anche la scena d’insieme nella festa da Flora non è più così satura di personaggi stravaganti, mentre l’alternanza tra il coro delle zingarelle e quello dei mattadori viene gestita in modo approssimativo. Si confida, dunque, che vengano adottati i dovuti adattamenti, cosicché l’allestimento riacquisti lo smalto delle recite del luglio scorso, a cui si rimanda per un maggiore approfondimento. Dopo l’impegno con la direzione de “La sonnambula”, Sebastiano Rolli fa in tempo a inserirsi nelle ultime due recite di questo capolavoro verdiano. La sua conduzione ha dei connotati innegabili: scorre spedita e dispone sonorità attutite, mostrando un occhio di riguardo nelle scelte esecutive dei cantanti, senza con ciò sminuire la performance dell’orchestra, che sfrutta quest’assetto per esprimersi in momenti di grande nitore. In continuità con questo principio, il direttore dà rilievo alla chiusura delle frasi che anticipano gli assoli, ma permangono alcune sbavature col palco, soprattutto sul canto del tenore, probabilmente poco avvezzo al celere stacco dei tempi. Tutti al suo posto anche i tagli di tradizione (fatta eccezione per l’ ”Addio del passato”), che uniti a un amalgama cromatico poco vario tratteggiano una resa routinaria, invece di rivelare un lavoro di limatura alla ricerca di un continuo valore aggiunto. In controtendenza col direttore, il coro di Lorenzo Fratini primeggiava di nuovo per il suo contributo interpretativo, risultando il vero fautore del riuscito crescendo del primo atto; si sarebbero, però, potuti osare anche ritmi più coinvolgenti, almeno nella serata da Violetta, dove il congedo non appare così affrettato. Proprio al vertice della gerarchia tra le parti vocali, un nuovo cambio di cast annuncia il subentro della terza Violetta, dacché la prevista Francesca Dotto non riesce a rientrare neppure per le ultime due repliche, a seguito di un’indisposizione già data per assodata dopo la prima del 19 novembre. Ironia della sorte, il ruolo rimbalza a Jessica Nuccio, la quale quest’estate aveva a sua volta dato forfait in tutte le recite in cartellone. Il giovane soprano palermitano possiede uno strumento chiaro ma perlopiù omogeneo, appena indebolito nella discesa alle note più gravi e un po’ in tensione sul Mi♭ di tradizione. Sulle prime, qualche sfogo in acuto si fa più intubato, tuttavia l’interprete dimostra sinergia con la direzione e attenzione al dosaggio della respirazione. Ne è riprova il cantabile della prima aria, dove un travolgente crescendo proietta per la sala un timbro limpido anche nel canto pieno a voce, caratteristica principale della sua restituzione vocale, al pari della scelta di dinamiche piuttosto anticonvenzionali. È, però, forse a causa di questa continua attenzione a un’emissione immacolata che la sua Violetta resta mutilata del suo più insidioso punto di forza: il carisma interpretativo. La Nuccio, infatti, mantiene in equilibrio agilità e vocalizzi (spesso semplificati) aiutandosi con posture da recital di canto, poco credibili in scena, lasciando all’immaginazione la parabola discendente che la consumerà fino all’epilogo. Un prezzo troppo alto da pagare, anche a fronte di un’esecuzione priva di forzature, soprattutto se il risultato è un “Sempre libera” in sordina, tutt’altro che spumeggiante rispetto al celebre bagno nella Fontana di Trevi della Ekberg, e un secondo atto in perpetuo piano, dove intere battute ad alto contenuto musicale rimangono prigioniere del golfo mistico. Fin dal suo ingresso, l’Alfredo di Matteo Lippi appare statico e fiacco nella ricerca di colori, al punto da sembrare uno dei tanti pretendenti e non quello capace di spingere l’affascinante protagonista oltre il confine delle convenzioni morali. Il tenore genovese non è, infatti, perspicace virtuoso e l’appianamento degli abbellimenti che cesellano la parte non può passare inosservato, specialmente quando questi dovrebbero trasfigurare l’ebbrezza d’amore. Malgrado il modesto estro interpretativo, la voce riecheggia senza particolari problemi di diffusione e gira con sicurezza sulle note di passaggio fino all’appoggio sui primi acuti, che alle volte diviene faticoso e risente di qualche occlusione più marcata. Con questi presupposti, la chiusa sovracuta della cabaletta era fuori discussione, mentre un maggiore slancio nelle inserzioni a piena orchestra gli avrebbe per lo meno consentito di chiudere l’esecuzione alla stregua dell’omogeneità vocale. D’altra stirpe il Germont padre di Sergio Vitale, che nel bilancio tra la resa e l’estensione delle parti risulta il più centrato dei tre ruoli principali. Connotato da un’impostazione vocale vagamente retrò, che salda i suoni a svantaggio di qualche rallentamento nella scansione delle frasi e degli abbellimenti, il suo Giorgio incarna con convinzione i precetti di un passato non più attuabile, sposando il filone interpretativo volto a definire il personaggio con un ragionato utilizzo della parola. Il baritono non manca d’intuizione drammatica, come rivelano i teneri assottigliamenti nei confronti del figlio, tutt’al più sembra sfuggente sulle possibili variazioni in acuto e difatti i frequenti Fa sovracuti non sono sempre a fuoco. La resa è perfettibile nei ragguagli su intenso tessuto orchestrale, dove la voce dovrebbe emergere con maggiore risonanza, ma certe pause, certi accenti sulla fine delle frasi e un pertinente indugiare ritmico nel fraseggio di persuasione, enfatizzano il discorso musicale fino a condurlo a una sua apprezzabile riuscita retorica. Su un set dominato da comprimari con spiccate doti attoriali, Rim Park (chiaro Gastone), Qianming Dou (scuro e convinto marchese d’Obigny), Marta Pluda (nitida Annina), Nicola Lisanti (puntuale domestico di Flora) e la disinvolta Flora di Ana Victória Pitts (stavolta un po’ cauta nel proiettare le frasi più esposte), confermavano le buone impressioni suscitate nelle recite a Palazzo Pitti. In ribasso, invece, la prova del baritono Dario Shikhmiri, barone Douphol dalla voce poco ferma e con un piccolo deficit d’intonazione nello scambio con Violetta prima della partita a carte, mentre le tre new entry, impersonate da Fabrizio Falli (corretto Giuseppe), Adriano Gramigni (ombroso dottor Grenvil) e Lisandro Guinis (perentorio commissionario), s’inserivano nell’insieme con diligenza e partecipazione. In attesa della nuova produzione col futuro direttore musicale del Maggio, il maestro Fabio Luisi, programmata per il prossimo settembre nel ciclo “Trilogia Popolare 2018”, il rilassato pubblico del sabato saluta con entusiasmo l’allestimento di Alfredo Corno e Angelo Sala, con le luci di Alessandro Tutini e le predominanti coreografie di Lino Privitera, tributando lauti applausi verso tutti gli interpreti principali. Foto © Michele Borzoni – TerraProject