Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2017-201
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Donato Renzetti
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Tenori Paolo Antognetti, Stefan Pop
Fabio Vacchi: Canti di fabbrica per voce e orchestra su testi di “poeti di fabbrica”
Pino Donaggio: Io che non vivo (senza te) per coro e orchestra
Giuseppe Verdi: Attila: “Qual notte!… Ella in poter del barbaro”
Antonín Dvořák: Sinfonia n. 9 in mi minore op. 95 “Dal nuovo mondo”
Venezia, 4 novembre 2017
Nel 1917 – l’anno tragico di Caporetto – il Conte Volpi, un nobile veneziano dalla vocazione politica e imprenditoriale, fondava il polo industriale di Porto Marghera, nell’intento di modernizzare la vita economica di Venezia, dotando la città di moderne strutture produttive. Alla celebrazione del centenario della nascita di Porto Marghera era dedicato il concerto di apertura della nuova stagione sinfonica del Teatro La Fenice, che aveva in cartellone una serie di titoli apparentemente eterogenei, ma in realtà legati – come vedremo – da un “filo rosso”. La celebrazione del citato anniversario non ha impedito che fossero sottolineati anche alcuni aspetti negativi, conseguenti al pur nobile progetto del nobiluomo veneziano, come appare evidente considerando il primo dei titoli in programma: quei Canti di fabbrica – appositamente commissionati dalla Fenice e presentati in prima assoluta –, che Fabio Vacchi, bolognese di nascita, ma veneziano di adozione – per aver abitato molti anni nella città lagunare, e partecipato a numerose edizioni della Biennale Musica – ha composto su versi di “poeti di fabbrica”, quali Attilio Zanichelli, Fabio Franzini e Ferruccio Brugnaro, in cui si esprime il rimpianto per quello che l’industria ha cancellato – l’eco dell’acqua disperso dalla routine di sempre, la bellezza che una lavoratrice gratta via dal suo corpo al pari della vernice dal legno, l’incanto delle Dolomiti a cui è stato strappato un operaio metalmeccanico – o la denuncia dell’implicita violenza che subisce chi è costretto a varcare i cancelli di una fabbrica. Nessuna retorica si coglie nelle linee di canto con cui Vacchi evidenzia, attraverso un sottile lavoro di cesello, il valore semantico di ogni parola, di ogni frase, oltre alla prosodia del verso, mantenendo l’accompagnamento orchestrale entro i limiti che consentono di lasciare adeguato spazio alle voci; le sonorità orchestrali si ispessiscono – con effetti lirici o tragici – solo nel momento in cui, cessato il canto, il compositore si abbandona alla propria emotività. Impeccabile, quanto a tecnica, fraseggio ed espressione, il tenore Paolo Antognetti, così come l’orchestra, sotto la guida sicura di Donato Renzetti.
Qualche tratto di retorica presentava invece, a nostro avviso, la trascrizione per coro e orchestra di quel grande successo internazionale, che è stata la canzone “Io che non vivo (senza te)” del veneziano Pino Donaggio: un pezzo che si lega alla tematica del concerto, se non altro per aver visto la luce nei primi anni Sessanta, in pieno Boom economico, quando, nel bene e nel male, lo sviluppo industriale italiano contribuì ad un rapido progresso a livello economico e sociale. Spettacolare la prestazione del coro, che ha brillato per nitidezza nel fraseggio e giusto accento. Il che si è confermato anche nel brano successivo, tratto dall’Attila di Giuseppe Verdi: un’opera legata a Venezia e, in particolare, al Teatro La Fenice, dove fu rappresentata per la prima volta il 17 marzo 1846. Si tratta del secondo quadro del prologo, in cui il personaggio di Foresto – protagonista, in questa pagina, insieme al coro – esprime, nel cantabile “Ella in poter del barbaro”, il proprio cruccio per il rapimento dell’amata Odabella da parte di Attila, per poi vagheggiare, nella successiva cabaletta, la rinascita, quale “fenice novella”, della devastata Aquileia, con chiara allusione a Venezia e al suo teatro. Appassionato ed eroico il canto del tenore Stefan Popp, dalla voce stentorea, increspata da un sottile vibrato. Il concerto ha avuto la sua apoteosi con la Sinfonia n. 9 “Dal nuovo mondo” di Antonín Dvořák, giustamente famosa e amata dal pubblico, che ha dato modo a Donato Renzetti di confermarsi uno dei massimi direttori italiani, per le sue doti di sensibilità ed equilibrio. Il maestro abruzzese ha offerto, di questo capolavoro, una lettura priva di ogni ridondanza, anche nelle parti “eroiche”, segnalandosi, per finezza interpretativa, negli episodi lirici: in particolare, nel malinconico Largo con la sua struggente melodia, su scala pentatonica, al corno inglese. Successo pieno e caloroso.