Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Stagione lirica 2017/18
“L’ELISIR D’AMORE”
Melodramma giocoso in due atti su libretto di Felice Romani, dal libretto “Le Philtre” di Eugène Scribe.
Musica di Gaetano Donizetti
Nemorino JUAN FRANCISCO GATELL
Adina MIHAELA MARCU
Belcore MARCO BUSSI
Dulcamara FABRIZIO BEGGI
Giannetta GIULIA BOLCATO
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Fabrizio Maria Carminati
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Pier Francesco Maestrini
Scene Juan Guillermo Nova
Costumi Luca Dall’Alpi
Luci Bruno Ciulli
Allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 24 ottobre 2017
Dopo “La rondine” inaugurale, il cartellone prosegue con uno dei grandi titoli di repertorio, recuperando “L’elisir d’amore” dalle ultime due stagioni estive a Palazzo Pitti, come avverrà anche per “La traviata” del prossimo novembre e per “Il barbiere di Siviglia” del marzo 2018. Una scelta che all’annuncio della nuova stagione lirica poteva sembrare ridondante, ma che sul campo è stata l’occasione per adeguare l’originale allestimento (di cui si può leggere nella recensione di Filippo Bozzi del giugno 2016 https://www.gbopera.it/2016/06/firenze-stagione-lirica-estiva-dellopera-lelisir-damore-a-palazzo-pitti/) al nuovo palco e per disporre un cast promettente. Contrariamente alla “Traviata” dello stesso ciclo estivo, che alla sua seconda ripresa esibiva una differente impronta registica, la riproposizione dell’ “Elisir” on the road di Pier Francesco Maestrini, con i costumi di Luca Dall’Alpi e le luci di Bruno Ciulli, lavora verso l’incisivo rinnovamento scenico di Juan Guillermo Nova, trovando nella più ampia cornice del teatro dell’opera il suo completamento naturale. L’espediente è tanto semplice quanto funzionale e si riduce all’installazione della grande parete interattiva di fondo, che nel primo atto mostra il migrare degli uccelli attraverso la campagna indefinita, per poi prendere parte alla festa western della seconda sezione con la scintillante insegna dell’ ”Adina’s Road Food – Classic fried chicken ”, in pieno stile Route 66.
Un’entrata in scena che non riesce al meglio quella del Nemorino di Juan Francisco Gatell, impegnato in una cavatina che gli richiede un certo sforzo sulle note di passaggio, per saldare con omogeneità il registro acuto su quello di centro. A voler ben guardare, il timbro soffuso del tenore argentino non si sposa particolarmente neppure con le languide espansioni della romanza finale; ciononostante, il personaggio prende forma, perché notevole è l’affinità interpretativa col ruolo, che gli permette di essere credibile anche durante l’ostica personificazione nel pollo del primo atto, rendendolo fautore di un sentimento che sboccia nel cuore di un adolescente impacciato, ma che matura con consapevolezza. Se, dunque, nel canto a piena voce la proiezione non è sempre nitida e il tenore deve scendere a patti con fiati corti o lievi slittamenti nell’apertura delle vocali (specie nelle dinamiche di rinforzo), ben pochi sono gli appunti che gli si possono muovere nei recitativi, dove Gatell dimostra un più spiccato intuito drammatico, pronto a far leva su una dizione minuziosa e su un fraseggio schietto, frutto della lunga esperienza nei ruoli mozartiani. Nella parata degli interpreti principali è, poi, la volta di Mihaela Marcu. Davvero una bella sorpresa, perché la sua Adina è tutt’altro che una mera incantatrice del sesso maschile, esibendo la duttilità canora necessaria ad alternare le più spericolate variazioni con la cantabilità malinconica di alcune frasi, sulle quali il soprano dimostra di possedere il giusto appoggio della voce. Il timbro è quasi lirico, la voce squilla nel registro acuto, atterra con sicurezza nel temibile salto di due ottave fino al Do sotto il rigo, si lascia apprezzare nella vellutata proiezione del canto spianato e dà prova di grande senso ritmico, sgranando picchettati e staccati sempre ben torniti, anche nei virtuosismi di sbalzo. L’unica menda si riscontrava in una certa trascuratezza nell’esecuzione dell’ultimo momento solistico, in cui l’interprete fatica a seguire la stretta progressione delle terzine e dove il soprano rumeno avrebbe potuto imporsi con dinamiche più autorevoli, spesso ridotte a smorzamenti sui passi che discendono alle note più gravi. Un modulo forse più atto ad arrotondare il timbro sul registro grave che, al pari di quello sovracuto, sarebbe interessante esplorare meglio ascoltandola in parti più estese. Di grande presa il reboante ingresso di Fabrizio Beggi (Dulcamara), che per rompere lo stallo dell’azione si presenta con tanto di megafono, richiamando l’attenzione dei rustici con un inatteso crescendo. Siamo di fronte ad un istrionico cantante-attore, ben calibrato sia nel dispiegare il puntuale armamentario da basso buffo che nell’assecondare una scrittura spesso rivolta verso zone più baritonali che basse, su cui la proiezione rimane sempre a fuoco, attutendosi giusto sul Fa acuto che ne limita l’estensione. Con questa peculiarità, la cavatina ed il successivo duetto sono un collaudato saggio di oratoria, ricco di sillabati ipnotici e rapidissimi, ma il valore aggiunto della sua interpretazione risiede nella solida tecnica con cui il basso scandisce le parole, che peraltro gli vale una “barcaruola” dal lodevole accento americano, senza mai venire meno alla professionalità dell’esecuzione. Più discontinuo il Belcore di Marco Bussi, che fa proprio il gergo militare tanto caro alla regia, sebbene il continuo assetto da sergente lo spinga più volte verso suoni quasi fissi e la resa manchi di slanci lirici più appassionanti, non favoriti dalla risonanza nasale dei frequenti sfoghi in acuto. Il timbro scuro e perentorio non ne fa un amante così persuasivo, ma la tempra vocale è discreta e il fraseggio sa volgere verso inflessioni patetiche o da cascamorto. Si tratta di far convergere questi mezzi verso un’esecuzione più sensibile alle sottigliezze tecniche e al controllo del canto sul fiato. Completava il cast la vezzosa Giannetta di Giulia Bolcato, un po’ alle strette nel coro di apertura, ma riscattata dalla messa a punto degli interventi del secondo atto, dove la voce è efficacemente proiettata, meticolosa sulle acciaccature ed espressiva nella solida conduzione delle note tenute. Per ciò che gli compete, il maestro Fabrizio Maria Carminati tollera uno spettacolo ricco di richiami militareschi (non presenti in partitura) disponendo una lettura attenta a non tralasciare i dettami dello spartito, specialmente quando si tratta di concedere gli innumerevoli ritornelli, restituendo una direzione più diligente che ricercata. Il focus è tutto sul palco e il maestro non è mai impreparato di fronte ad anticipazioni o rallentamenti ritmici richiesti dalla moderna finzione scenica, esprimendosi al meglio nei recitativi accompagnati o in quelli sostenuti dalla sottile tecnica del parlante. Più ardua è la gestione delle concitate scene d’insieme, in cui si sfiora qualche fragore più pronunciato, e allo scattare degli approssimativi crescendo di chiusura si ha come l’impressione che alla buca manchi la guida di una mano più decisa. Perfettibili, anche, gli interventi del coro di Lorenzo Fratini, che avrebbe potuto tratteggiare i partecipativi quadretti di vita paesana con maggiore carisma vocale. Al termine, non poteva mancare d’entusiasmo il pubblico del Maggio, che vedeva ancora una volta la partecipazione di molti giovani, ripagata da una messa in scena fresca e, nonostante la forte trasposizione, piuttosto rappresentativa.