Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’opera e balletto 2016-2017
“DER FREISCHÜTZ”
Opera romantica in tre atti su libretto di Friedrich Kind
Musica Carl Maria von Weber
Ottokar MICHAEL KRAUS
Kuno FRANK VAN HOVE
Agathe JULIA KLEITER
Ännchen EVA LIEBAU
Kaspar GÜNTHER GROISSBÖCK
Max MICHAEL KÖNIG
Ein Eremit STEPHEN MILLING
Kilian TILL VON ORLOWSKY
Vier Brautjungfern CÉLINE MELLON, SARA ROSSINI, ANNA-DORIS CAPITELLI, MAREIKE JANKOWSKI
Stimme des Samiel FRANK VAN HOVE
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del Coro Bruno Casoni
Regia Matthias Hartmann
Scene Raimund Orfeo Voigt
Costumi Susanne Bisovsky, Josef Gerger
Luci Marco Filibeck
Drammaturgia Michael Küster
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 17 ottobre 2017
«Welch schöne Nacht!», “Che bella notte!”, esclama Agathe affacciandosi al terrazzino della casa in cui attende l’arrivo dell’amato Max: è una sera stellata, vigilia della prova che garantirà al giovane cacciatore il diritto di sposare la figlia del guardaboschi del principe. Ed è certamente una bella serata quella trascorsa alla Scala in occasione del nuovo allestimento di Der Freischütz, uno dei titoli più rappresentativi del repertorio romantico tedesco; tutto sommato un punto d’arrivo di tradizioni fiabesche e popolari, e al tempo stesso un punto di partenza di invenzioni musicali nuove e fortunate. Un entusiasta Arrigo Boito, in occasione della prima esecuzione scaligera dell’opera, scriveva sulla «Gazzetta Musicale di Milano» il 17 marzo 1872 che «L’autore del Freischütz è un precursore di Meyerbeer e di Rossini, di Roberto il Diavolo e del Guglielmo Tell. Il Freischütz è una di quelle generose creazioni fecondatrici di altre creazioni». Boito rappresenta l’archetipo della propaganda pubblicitaria dell’opera di Weber in Italia; nel mondo germanico (e non solo a parole) lo fu Wagner, che nel Fliegende Holländer si riappropriò di intere strutture del Freischütz per ridurre a teatro musicale la vicenda del navigatore maledetto e bisognoso di redenzione. Allora come oggi, presso il pubblico italiano tanta pubblicità è necessaria, ma per ragioni opposte rispetto all’entusiasmo mitteleuropeo: le tenebre e il mistero, l’arcano e la magia, la commistione musicale di ingenuo e di raffinato, così come di dramma serio a conclusione serena, presso i teatri della penisola non hanno mai attecchito in forma duratura e appassionata; per non parlare dell’ostacolo linguistico e dell’alternanza di canto e recitazione che caratterizzano il Singspiel. Insomma, Il franco cacciatore – per citare il titolo di cui gli ascoltatori italiani conoscono bene la celebre sinfonia – quando è rappresentato a teatro rischia sempre di apparire un prodotto troppo estraneo alla sensibilità mediterranea, di cui piace sottolineare l’importanza nella storia del melodramma ancor più che la qualità della musica e del canto di per se stessa. Forse anche per questa ragione l’allestimento milanese offre una versione fedelissima ai dati narrativi e alle suggestioni visuali evocate da libretto e partitura: stilizzato, oscuro, centrato su pochi e potenti oggetti simbolici. La dimensione notturna del Freischütz, del resto, è affascinante come tutti i racconti mefistofelici in cui un uomo scende a patti con il demonio e rischia successivamente l’annientamento. In questo abisso dello spirito, e nel conseguente recupero della salvezza, consiste l’autentico motivo ispiratore dell’opera; motivo, inutile sottolinearlo ancora, profondamente radicato nella sensibilità letteraria tedesca, almeno dal Goethe di Faust fino al Mann del Doctor Faustus.
Di questa tensione tra debolezza e aspirazione sublime si fa interprete il direttore Myung-Whun Chung, responsabile di una concertazione molto accurata e di un’approfondita lettura orchestrale; sin dall’ouverture è appunto il vibrare spasmodico degli archi a profilarsi quale effetto stilistico primario, segno sonoro dell’inquietudine e dell’angoscia. Con gusto felice il direttore addita sempre all’ascoltatore la commistione di generi: da perfetto frequentatore del teatro musicale dell’Ottocento Chung sottolinea in modo ugualmente efficace i tratti popolareschi e anche grossolani delle scene corali, quasi fiera di paese, e quelli diabolici, romantici, decisamente intellettualistici, culminanti nel tema di Agathe e nelle ieratiche asserzioni dell’Eremita. Se qua e là si apprezzano motivi alla Hänsel und Gretel (che il pubblico scaligero ha appena ascoltato), ma senza le complicate modulazioni wagneriane, nella sinfonia e nel finale emerge anche il respiro grandioso dell’opera; Chung fa capire come nel ritmo processionale del finale, una sorta di marcia della giustizia illuminata da Dio, siano in fieri i grandi concertati del Tell e di tutto il grand-opéra francese.
Michael König è il tenore che interpreta il ruolo protagonista di Max: la sua voce risuona senza dubbio pregevole, sebbene la tecnica non sia esente da difetti (il più grave consiste nella risonanza dell’emissione in uno spazio tra gola e naso, che impedisce una buona proiezione del suono. A volte si aggiunge anche un lieve vibrato largo); senza accentuate lacerazioni interiori, il suo Max riesce comunque credibile come “eroe di paese”, bisognoso di una crescita spirituale di là dal finale dell’opera. Günther Groissböck dà voce al personaggio demoniaco di Kaspar, il tentatore già asservito alle forze del male; questo basso fornisce una prova efficace sul piano attoriale, anche se gli acuti non sono sempre ben coperti; la mancanza di sostegno adeguato, anzi, fa sì che qualche volta si producano stonazioni abbastanza evidenti. Assai più spigliato e disinvolto il duo di voci femminili: un po’ debole nel registro basso Eva Liebau, che offre una Ännchen simpatica e civettuola, mentre Julia Kleiter è l’elemento di punta della compagnia, all’altezza del difficile ruolo di Agathe; molto espressiva sin dalla scena notturna in cui compare per la prima volta, regala pianissimi e frasi cantate d’un sol fiato. Peccato che, come quella di quasi tutti i suoi colleghi, la voce abbia poco corpo e non brilli di molti armonici. Il soprano supplisce tuttavia l’esilità dell’emissione con una buona tecnica, come dimostra la preghiera iniziale del III atto (momento che suscita gli apprezzamenti più marcati di tutta l’esecuzione). Tra le tante voci di basso previste dalla partitura, quella di Stephen Milling è la più ragguardevole: è un Eremita carismatico e importante. Autorevole e cinico, come è giusto che sia, l’Ottokar di Michael Kraus. Corretti gli altri, apprezzabili soprattutto per la capacità di alternare la parte cantata a quella recitata. Freschi e genuini i quattro giovani soprani che formano le damigelle d’onore della sposa: sono tutte soliste dell’Accademia di Perfezionamento per Cantanti Lirici della Scala. Molto buono, secondo le sue migliori abitudini, il Coro del teatro istruito da Bruno Casoni.
La regia di Matthias Hartmann, come si è già accennato, lavora su pochi elementi, a volte contrastanti: alla stilizzazione degli oggetti e delle scene, costruite con tubicini di luce al neon, si affiancano festoni e ghirlande floreali; quando però si tratta di evocare il mondo della magia e del soprannaturale il regista si affida a strumenti visivi collaudatissimi (fiammate, luci rossastre, figuranti in veste di animali infernali, gnomi inquietanti, secondo un trovarobato un po’ prevedibile, che sarebbe certamente piaciuto ad Arrigo Boito; manca soltanto la “civetta meccanica che rotea gli occhi” che era presente alla prima berlinese del 1821). Più che la drammaturgia, nel corso della rappresentazione risaltano i costumi di Susanne Bisovsky e Josef Gerger: coloratissimi, elaborati, anche al limite della stravaganza, eppure funzionali, perché insistono sulla componente fiabesca e popolare del racconto, sempre con grande finezza sartoriale. Atri fili di luce disegnano il profilo delle montagne sullo sfondo, ma senza alcuna valenza paesaggistica. Al termine dello spettacolo anche Hartmann si presenta sulla scena, dopo l’ovazione per il direttore d’orchestra; ma il pubblico scaligero non si scompone affatto, né in apprezzamenti né nel loro contrario, come si fa per rappresentazioni «sanza infamia e sanza lodo». Bisogna ammettere che la traduzione scenica dell’opera in termini unitari e coerenti è difficilmente possibile: le incongruenze e le mancanze del libretto (concordemente rilevate anche dai migliori sostenitori storici delle qualità dell’opera) si riflettono sul lavoro del regista, imprigionandolo nella frammentazione. Per questo il Freischütz non è un titolo frequentato dai registi “di grido”, quelli che decidono di applicare un’idea fortemente innovativa alla struttura iniziale di un’opera, qualunque sia il suo sviluppo dopo il I atto. Bisogna accettare il testo per come si presenta, anche in seguito ad alcune scelte errate del compositore (che eliminò un prologo finalizzato a introdurre l’epilogo e il ruolo redentore dell’Eremita); o forse bisogna penetrare di più nell’abisso spirituale del rapporto tra umano e divino, che mai può avere una perfetta risoluzione, tanto meno nel ridotto spazio-tempo della scena teatrale. Lo ha osservato Maurizio Giani, a proposito del tema della stretta finale: nell’ouverture esso costituiva la trionfale conclusione, mentre nel canto corale che invita Max all’espiazione e alla fiducia in Dio sta «sotteso […] come un semplice accompagnamento, quasi in lotta con le voci: l’istanza utopica si dispiega contro, e oltre, le parole che ha rivestito sino a quel momento». L’utopia dell’uomo che crede di poter mediare con il divino si trasforma, insomma, in disperazione insanabile. Foto Marco Brescia & Rudy Amisano © Teatro alla Scala