Venezia, Palazzetto Bru Zane: Antoine Reicha e i suoi “contrappunti visionari”

Venezia, Palazzetto Bru Zane, Festival Antoine Reicha, musicista cosmopolita e visionario, dal 23 settembre al 4 novembre 2017
CONTRAPPUNTI VISIONARI”
Violino Julien Chauvin
Violoncello Christophe Coin
Fortepiano Jean-Jacques Dünki
Antoine Reicha:  Sonate pour le pianoforte avec accompagnement de violon et violoncelle op. 47; da Trente-six Fugues pour piano op. 36 : N° 9, N° 12, N° 24, N° 34, N° 32; da Douze Duos pour violon et violoncelle op. 84 : N° 2, N° 9 (Imitation de la harpe éolienne); Trio pour violon, violoncelle et piano en la majeur op. 101 n° 6.
Venezia, 24 settembre 2017
Come abbiamo già riferito nella precedente recensione, il Palazzetto Bru Zane prosegue nella sua esplorazione del panorama musicale francese dei primi decenni del XIX secolo, alla riscoperta di autori pressoché ignoti, interessandosi ora ad Antoine Reicha: figura di transizione tra passato e futuro, trait-d’-union tra l’arte germanica e l’insegnamento musicale francese, convinto assertore dell’eccellenza dello stile viennese, in particolare di Haydn e Mozart, come si evince da molta parte della sua musica da camera, ma anche teorico impareggiabile, che seppe cimentarsi nella ricerca di un’armonia innovatrice e di un contrappunto creativo, non accademico.
Ed è proprio su quest’ultimo aspetto della figura di Reicha, che indagava, in particolare, il secondo concerto, nell’ambito del festival dedicato a questo musicista, il cui variegato programma ha fornito una prova più che convincente del suo magistero contrappuntistico, oltre che della sua padronanza delle forme codificate dai venerati maestri del classicismo viennese, rispetto alle quali si permette, peraltro, qualche trasgressione. I brani in programma sono stati proposti da tre interpreti d’alta scuola, che hanno saputo coniugare una tecnica rigorosa ad un’espressività capace di contrasti e sfumature, brillando, nei pezzi d’insieme, per l’impeccabile affiatamento. Si tratta del violinista Julien Chauvin, solista di musica barocca, ma anche interprete del repertorio romantico e moderno, che ha già collaborato in passato con il Palazzetto Bru Zane; del violoncellista Christophe Coin, docente di violoncelo barocco e viola da gamba presso il Conservatoire national supérieur de musique et de danse di Parigi, nonché fondatore del Quatuor Mosaïques (formazione ben nota al pubblico del Palazzetto Bru Zane); e del pianista Jean-Jacques Dünki che alla predilezione per la musica del primo Novecento, unisce una passione per i pianoforti antichi (nel concerto di cui ci occupiamo ha suonato un fortepiano Dulcken a sei ottave, con meccanica viennese del 1815 ca.).
Nella Sonata per fortepiano con accompagnamento di violino e violoncello op. 47 si sono imposti, nel corso del primo movimento, Allegro poco vivo, il pianoforte e il violino nel loro frequente dialogare, che si fa via via più appassionato. Pubblicata nel 1804 a Lipsia e probabilmente composta prima del 1797 ad Amburgo, la sonata si iscrive nella tradizione di Haydn e Mozart, i cui trii sono costituiti da tre movimenti soltanto, mentre il violoncello – secondo la concezione haydniana – ha ancora un ruolo secondario. Il violoncello ha assunto un ruolo melodico più importante nell’Adagio, contraddistinto da momenti solistici più estesi – come la dolce ed espressiva melodia esposta dal pianoforte e poi ripresa a turno, con intensità crescente, dal violino e dal violoncello –, dove si coglie, altresì, la propensione di Reicha per la scrittura imitativa e il canone. Il variegato Finale: Allegro vivace, che spezza la tranquillità del movimento precedente e nel corso del quale ha dominato prevalentemente il pianoforte, ha concluso con brio e leggerezza questo lavoro che si sviluppa sotto il segno del divertimento.
Dedicato ad Amédée Ardisson, violinista e compositore dilettante, il Trio per violino, violoncello e pianoforte in la maggiore op. 101 n. 6, diversamente dalla precedente sonata, rivela uno stile concertante, vale a dire un trattamento equilibrato dei tre strumenti, caratteristico della raccolta di cui fa parte, evidente soprattutto nel finale, in cui gli scambi tra le parti sono particolarmente serrati, a conclusione di un pezzo, che si fonda sul puro divertimento, anche su quello che nasce dall’allontanarsi dalla tradizione proponendo modulazioni spesso a tonalità lontane o rompendo le consuete simmetrie formali. Precisa e scattante l’esecuzione dei solisti, che hanno saputo rendere con verve gli effetti di sorpresa – pause inattese o appunto le ricordate modulazioni trasgressive –, dimostrandosi però anche capaci di trovare il giusto accento in corrispondenza degli squarci melodici.
Pregevoli esempi di “scrittura imitativa” erano gli altri pezzi proposti: i due duetti (n° 2 e n° 9) dai Dodici duetti per violino e violoncello op. 84 e le cinque fughe (n° 9, n° 12, n° 24, n° 34, n° 32) dalle Trentasei fughe per pianoforte. I duetti dell’op. 84 furono concepiti come esempi da inserire all’interno del Petit Traité d’harmonie pratique, pubblicato verso il 1814. In essi Reicha esplora, tra le risorse del contrappunto, la polimelodia di uno “stile di conversazione”, in cui il violoncello “canta” alla pari del violino, preferendo la libertà della fantasia allo stile severo nella condotta delle parti. Nel duetto n° 2 – formato da due episodi, uno lento, l’altro vivace, come peraltro avviene nella maggior parte di questi pezzi – come nel n° 9 – che si segnala per essere diviso in tre parti, di cui l’ultima designata dalla didascalia “Imitazione dell’arpa eolica” – il violino di Julien Chauvin e il violoncello di Christophe Coin hanno intrecciato un dialogo che ha conquistato il pubblico per la chiarezza con cui emergeva l’impianto strutturale dei brani, oltre che per la bellezza del suono, armonioso e ricco di sfumature.
Quanto alle trentasei fughe, esse furono pubblicate intorno al 1805 con dedica in versi ad Haydn, dal quale – oltre che da Mozart, Bach, Händel e altri compositori – Reicha prende in prestito qualche “soggetto”, per quanto tale omaggio al passato non gli impedisca di adottare, in questa raccolta, soluzioni audaci sia nel ritmo (la ventiquattresima, ad esempio, è costruita su un ritmo in sette tempi), sia per quanto riguarda la natura del soggetto (come testimonia lo staccato bruscamente interrotto da pause, che caratterizza quello della dodicesima); il che conferma che, a differenza di molti altri musicisti, che considerano la fuga il simbolo della rigidità accademica, Reicha ne fa il campo di sperimentazioni sorprendenti. Nell’eseguire le cinque fughe in programma, Jean-Jacques Dünki ha dato prova di una straordinaria padronanza tecnica e, in particolare, di un tocco sempre nitido e cristallino, che – insieme a un’esuberante musicalità – gli ha consentito di far risaltare ogni aspetto – dall’ambito timbrico a quello strutturale – di questi brani, proposti con totale nonchalance, nonostante la loro indubbia complessità. Consenso pieno e caloroso dal parte del pubblico dopo l’esecuzione di ogni pezzo e a conclusione del concerto.