Milano, Teatro alla Scala, Stagione 2016-2017
“HÄNSEL UND GRETEL”
Fiaba drammatica in tre quadri su libretto di Adelheid Wette
Musica Engelbert Humperdinck
Peter GUSTAVO CASTILLO
Gertrud CHIARA ISOTTON
Hänsel ANNA DORIS CAPITELLI
Gretel FRANCESCA MANZO
Die Knusperhexe MAREIKE JANKOWSKI
Sandmännchen ENKELEDA KAMANI
Taumännchen CÉLINE MELLON
Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala
Coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Marc Albrecht
Maestro del Coro di voci bianche Marco De Gaspari
Regia Sven-Eric Bechtolf
Scene Julian Crouch
Costumi Kevin Pollard
Luci Marco Filibeck
Video Joshua Higgason
Produzione Teatro alla Scala – Progetto Accademia
Milano, 6 settembre 2017
Hänsel und Gretel mancavano alla Scala dal Natale 1959, quando furono rappresentati ancora nella versione ritmica italiana di Gustavo Macchi. Prima, tra 1902 e 1949, l’opera aveva goduto di discreta vitalità, seppure accompagnata dal solito pregiudizio di opera per bambini, forse neppure degna di figurare nel cartellone ordinario di un teatro come La Scala (non a caso la prima esecuzione milanese si tenne al Teatro Manzoni nel 1897, a quattro anni di distanza dalla prima assoluta). L’assenza andava colmata al più presto, anche in conformità di una tendenza globale: statisticamente, Hänsel und Gretel è una delle opere più eseguite al mondo, come riferisce Andrea Malvano nel bel saggio del programma di sala (Sintesi e originalità in “Hänsel und Gretel” di Humperdinck). La ripresa alla Scala è felicissima, sia per lo straordinario valore musicale dell’opera sia per le qualità della nuova produzione, gemma del progetto Accademia e di tutti gli artisti in esso coinvolti.
Marc Albrecht si rivela il direttore di scaltrita esperienza wagneriana che tutto il mondo conosce, senza eccedere mai nell’opulenza sonora; non fa di Hänsel und Gretel un poema sinfonico, anzi restituisce tutta la leggerezza del canto accompagnato, specialmente in occasione dei duetti dei fratellini. Va riconosciuto a Eva Mei, docente preparatore della compagnia di canto, di aver svolto un lavoro molto accurato: tutti i giovani dimostrano una professionalità e soprattutto una correttezza d’impostazione vocale veramente apprezzabili. Su tutti trionfa la Gretel di Francesca Manzo, un soprano lirico dal porgere semplicemente squisito. La sua prova è molto buona sin dall’inizio, ma dà il meglio di sé nel canto di risveglio in apertura del III quadro. Non ancora caratterizzata da una propria “personalità vocale”, ma senza dubbio adeguatissima alla parte di Hänsel il mezzosoprano Anna Doris Capitelli. Molto espressivo nei momenti di ansia per i figli il Peter di Gustavo Castillo: un baritono che deve perfezionare la proiezione della voce, affinché siano efficaci le sue buone potenzialità. Corretta e incisiva la Getrud di Chiara Isotton. Caricaturale, petulante, acidula, insomma ottima, è la Strega di marzapane di Mereike Jankowski. Due minuti di delizia sono elargiti dall’Uomo della Sabbia di Enkeleda Kamani, dalla voce lirica e soave, anche se un po’ piccola; buona, ma meno spiccata, anche la prova di Céline Mellon, nella parte dell’Uomo della Rugiada.
La regia è un capolavoro di intelligenza e di coerenza; in qualità di attore, regista, studioso wagneriano (mentre lo metteva in scena ha pubblicato nel 2006 un libro sull’Anello del Nibelungo: Vorabend. Eine Auseinedersetzung mit Wagners Ring), Sven-Eric Bechtolf si presenta come l’artista ideale cui affidare la fiaba musicale di Humperdinck. La nuova produzione è infatti impostata sulla traduzione visiva della grazia; si badi, lo spettacolo non è mai “grazioso” nel senso di fanciullesco o dolciastro – e non è affatto ingenuo, dato che lo attraversa un nugolo di silenziosi senzatetto, sfortunate presenze di ogni città contemporanea -, ma affronta ogni trasformazione con gesto di grazia. Il cambio delle scene, che necessariamente si traduce in elaborazione degli interludi sinfonici, utilizza la quinta mobile dipinta, con uno stile che rivitalizza la concretezza stessa dell’antico manufatto, vivacizzato ora dalle proiezioni di Joshua Higgason ora dalle efficaci luci di Marco Filibeck. L’elemento scenico fa funge da Leitmotiv (avrebbe potuto chiamarsi diversamente?) è uno scatolone: in esso la strega cerca di intrappolare i due bambini nel corso dell’ouverture; poi l’oggetto si trasforma in scatola magica da cui fuoriesce l’omino della sabbia (l’indimenticabile Nano Sabbiolino dell’antica traduzione italiana, qui assimilato allo Struwwelpeter, con piacevole contaminazione tra Grimm Bruder e Heinrich Hoffmann) e infine nel forno in cui i due protagonisti gettano la strega. La famiglia degli umili Peter e Gertrud non abita ai margini di un bosco o in campagna, ma alla periferia di una superba città, irta di grattacieli sullo sfondo; è il contesto della banlieue, occupata da case di carta pesta e rifiuti, popolata da diseredati che si trasformano in angeli nel finale del II quadro (i quattordici angeli che i piccoli invocano nelle preghiere della sera. Recita la didascalia di Adelheid Wette: «vestiti in lunghi abiti sciolti, discendono a coppie la scala di nubi, mentre la luce si fa man mano più intensa, […] si prendono per mano e danzano amorosamente intorno alle figure dei bambini»). Ma, al di là delle scelte visive e scenografiche, in cui eccelle il gusto di Julian Crouch, il regista non elimina quell’elemento wagneriano che permea la partitura e la drammaturgia dalla prima all’ultima nota: nella gestualità dei personaggi, nella silhouette degli alberi, nei costumi, risiede sempre qualcosa di massiccio, di imponente, di forzuto, senza però scadere mai nel cattivo gusto o nella stravaganza. Il fiabesco wagneriano di Humperdinck, che mescola un po’ di Mime con un po’ di Siegfried, con qualche pizzico di Lohengrin e Parsifal, è il vero intento rappresentativo dello spettacolo; per dirlo con una parola che sarebbe piaciuta a Wagner e al suo devotissimo accolito, lo spirito della partitura rivive nella spigliata e vivace regia di Bechtolf. Quando tutti i bambini imprigionati in un bozzolo di marzapane sono liberati da Hänsel e Gretel e l’incantesimo si rompe, sullo sfondo si profilano di nuovo gli edifici della città: non è soltanto un ritorno alla realtà quotidiana, perché si intravvede un rapporto tra la strega – una povera stracciona che non fa paura a nessuno – e la periferia urbana, cioè il vero luogo da cui si vorrebbe fuggire. Il temibile forno della casetta di marzapane, la Wunderkammer dei balocchi e delle leccornie, in confronto è soltanto il felice spazio della fanciullezza innocente, cui non è più concesso tornare. Foto © Teatro alla Scala