Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Ciclo Passione Puccini 2017
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in due atti su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, da “Madam Butterfly” di John L. Long e “Madame Butterfly” di David Belasco.
Musica di Giacomo Puccini
Cio Cio San DONATA D’ANNUNZIO LOMBARDI
Suzuki ANNUNZIATA VESTRI
Kate Pinkerton MARTA PLUDA
B. F. Pinkerton ANTONIO GANDIA
Sharpless FRANCESCO VERNA
Goro ROBERTO COVATTA
Il principe Yamadori / Commissario imperiale JUNGMIN KIM
Lo zio Bonzo LUCIANO LEONI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Francesco Pasqualetti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Fabio Ceresa
Scene Tiziano Santi
Costumi Tommaso Lagattolla
Luci D. M. Wood
Allestimento in coproduzione con la Fondazione Teatro Petruzzelli di Bari
Firenze, 21 settembre 2017
Alla vigilia della prima di “Tosca”, si chiude senza infamia e senza lode la “Butterfly” che l’8 settembre aveva aperto il ciclo “Passione Puccini”, alle porte della nuova stagione lirica. Le scene di Tiziano Santi, sorte in tempi di grande economia, non lasciano adito che ad una barriera di pannelli scorrevoli, dietro cui si cela l’aspettativa di un qualcosa che non c’è: un ponte sempre più ripido, aperto tra l’abisso del cielo e del mare, il baratro di due mondi troppo lontani per poter trovare un’effettiva conciliazione. In questa cifra di estrema sintesi, lo spirito del Giappone trova la sua incarnazione nel ruolo di Suzuki, atarassica maestra calligrafa e, soprattutto, cinica custode di un destino ineluttabile. Fabio Ceresa concepisce, infatti, i diversi personaggi solo in relazione ad un intreccio fatale, dove ciascuno non può sottrarsi alle proprie pene, legate a doppio filo a quelle di Cio Cio San. Sharpless e Suzuki, ad esempio, sono consci di rivolgere i migliori propositi protettivi verso una ragazza senza speranze, votata al sacrificio da un Pinkerton che agli arbori della prima notte di nozze è già connotato spazialmente come un’entità a sé. La catena meccanicistica si serve anche delle soluzioni illuminotecniche di D. M. Wood, abili nel creare il colpo di scena che rivela la presenza del bambino, estrema possibilità di riscatto per la protagonista, su cui i fluenti costumi di Tommaso Lagattolla schiudono i loro ultimi bagliori. Si tratta di scelte interpretative, che possono essere più o meno condivise, ma sicuramente plausibili e ben contestualizzate. Tutt’al più sarebbe stato d’effetto mantenere il sipario sollevato durante l’intermezzo di accompagnamento alla veglia (visto che nel seguito la scena non cambia), lasciando che la coltre di neve posta a sigillo della disillusione di Butterfly cadesse col soprano rivolto verso il pubblico, in modo da mettere maggiormente in risalto la disperata ricerca di un orizzonte immutato.
All’uscita in scena, si nota subito come il compiaciuto tenente di Antonio Gandia non si discosti dalla superficiale tradizione esecutiva di una delle parti per tenore tra le meno approfondite. Se l’interprete abbia fatto di necessità virtù o meno è difficile dirlo, sta di fatto che il peso vocale non era consono al ruolo, rendendo peraltro difficile l’apprezzamento di qualche spunto più coloristico, ed i numerosi artifici posti a rinforzo della proiezione sono spesso sconfinati in suoni gutturali o dal sostegno precario, come nell’azzardata salita al do. La scarsa esuberanza in acuto, dove l’emissione perde ancora più di fibra, spreca le poche occasioni per riscattare una scrittura perlopiù ponderata, che pure nei legati di centro avrebbe potuto dare maggiore rilievo al tiepido timbro del tenore argentino, almeno in contesti più ristretti. Così, colti da un senso d’irrisolto, si attende con impazienza l’ingresso di Donata D’Annunzio Lombardi, ammaliante nelle sottili soluzioni stilistiche del canto dal retroscena e dotata di una naturalezza d’accento tale da esprimere da sé, soprattutto nel contrappunto, i connotati esotici di Cio Cio San. Alla sortita, però, l’incanto diminuisce, dato che alla rotondità vocale del registro medio-acuto segue uno spettro medio-grave piuttosto scarno e depauperato della dovuta spinta drammatica. Numerose sono le frasi liriche che rimangono nell’ovatta, arrivando anche a stemperare la celebre aria del secondo atto, dove tutto sommato il soprano riesce a saldare con sicurezza i lunghi sfoghi in acuto, che in altri punti le sono costati maggiore sforzo. A questa Butterfly che si libra solo a mezz’aria resta, comunque, da ribattere con qualche inciso di voluta sottigliezza cromatica, tratteggiato qua e là da filati in pianissimo (ben gestiti anche in posizione supina), smorzamenti di tutto rispetto ed angoscianti note in crescendo, a complemento di un’interpretazione scenica che avrebbe richiesto qualche motivazione in più e che è forse riuscita meglio nell’ingenua riverenza del primo atto, rispetto agli impervi moti del finale. Seconda protagonista della serata era, poi, la Suzuki di Annunziata Vestri, ruolo principe per la realizzazione dei dettami del regista e ferrea esecutrice dei passi fatali dell’opera. Il fondo timbro del mezzosoprano vacilla in qualche inserzione grave più in affanno, riservando una bella voce vellutata su tessiture acute, mezzo spontaneo per assolvere una funzione quasi materna nei tristi giorni dell’abbandono. D’altro canto, il vivace Goro di Roberto Covatta era messo a repentaglio da qualche intervento acuto meno riuscito, ma arricchiva l’insidioso canto di conversazione con toni tanto schietti quanto eloquenti, mentre lo Sharpless di Francesco Verna costituiva il solo tutore dei sentimenti più autentici, materializzati in una cavata risonante e dal fraseggio autoritario, a suo agio in questa tessitura che guarda spesso verso l’acuto e resa giusto con qualche inflessione meno nitida. Completavano il cast i partecipativi interventi di Jungmin Kim (nella duplice veste del principe Yamadori e del commissario imperiale), Luciano Leoni (vociferente zio Bonzo) e Marta Pluda, Kate Pinkerton un po’ fragilina, ma la cui forza drammatica necessita essenzialmente della sola presenza scenica. In una serata priva di grandi picchi canori, vinceva a mani basse l’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. Col suo supporto, il maestro Francesco Pasqualetti è stato capace di pregiate evanescenze, in grado di sottolineare col solo del violino l’umiltà di un “bene piccolino”, il cui valore non stenta a prendere il volo nelle ampie volute degli archi. La corposa direzione fissa l’immagine di una donna innamorata, legata al suo poetico contesto naturale, ma non indugia mai troppo sulla freschezza della scrittura, quasi a voler arrivare subito “al punto”, adagiandosi sull’ode all’America e sul tema del suicidio del padre di lei, prima dei singhiozzanti pigolii di fiati ed archi. In questo piano, il vivido richiamo degli uccellini che annunziano la primavera funge da espediente per rafforzare la portata del finale e grande importanza è data ai flussi tematici delle rimembranze passate, in cui la buca trova il suo momento di maggiore alchimia col palco. In crescendo anche la prova del coro di Lorenzo Fratini, un po’ approssimativa nel corteo nuziale dell’inizio, ma ineccepibile nel canto “a bocca chiusa”, scorcio rarefatto dell’ultimo, amaro, istante d’illusione della protagonista. Caloroso, infine, il folto saluto del pubblico del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino (almeno così sembra che debba chiamarsi d’ora in avanti), che in questa circostanza vedeva la presenza in sala del soprano Jessica Pratt. Foto Simone Donati