Pesaro, Adriatic Arena, 38° Rossini Opera Festival
“LE SIÈGE DE CORINTHE”
Tragédie lirique in tre atti di Luigi Balocchi e Alexandre Soumet.
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Damien Colas.
Mahomet II LUCA PISARONI
Clèoméne JOHN IRVIN
Pamyra NINO MACHAIDZE
Néoclès SERGEY ROMANOVSKY
Hieros CARLO CIGNI
Omar IURII SAMOILOV
Isméne CECILIA MOLINARI
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Coro del Teatro Ventidio Basso
Direttore Roberto Abbado
Maestro del coro Giovanni Farina
Progetto regia La Fura dels Baus
Regia e scene Carlus Padrissa
Elementi scenografici e pittorici, costumi e video Lita Cabellut
Luci Fabio Rossi
Pesaro, 13 agosto 2017
La trentottesima edizione del ROF è doverosamente dedicata ad Alberto Zedda, scomparso lo scorso marzo, padre ed animatore del Festival e dell’Accademia ad esso collegata, in veste di direttore e di docente, nonché protagonista assoluto, come musicologo, della Rossini Renaissance.
Nel giro di qualche mese è venuto a mancare anche Philip Gossett, musicologo rossiniano di grande esperienza e valore, autore da solo e in tandem con Zedda, di edizioni critiche adottate per le rappresentazioni del ROF, che dal 1980 costituiscono la verifica teatrale del lavoro filologico e presentano al pubblico nella massima integrità e originalità il corpus dei lavori rossiniani. Le Opere del pesarese sono state per la maggior parte più volte rappresentate, e le edizioni critiche sono pubblicate e disponibili; l’Opera di apertura di questa edizione, Le Siége de Corinthe, era invece comparsa al ROF una sola volta, nel 2000, e in una prima revisione in attesa dell’edizione critica definitiva.
In questi giorni Le Siége va finalmente in scena per la prima volta in versione integrale, grazie al lungo lavoro di Damien Colas, che restituisce alla prima delle opere francesi di Rossini – o la seconda se si considera come prima Il Viaggio a Reims – circa venti minuti di musica distribuiti tra i ballabili del secondo atto, il duetto tra Pamyra e Mahomet, sempre nel secondo atto, e il finale dell’Opera. Ciò che ne scaturisce è una visione ancor più completa e convincente del Rossini serio della piena maturità, all’inizio del periodo parigino che culminerà, nel giro di poco più di due anni, nel Guillaume Tell, suo capolavoro estremo.
Proprio con il Guillaume Tell emergono affinità musicali e concettuali, nell’orchestrazione, nella caratterizzazione dei personaggi tramite i recitativi, in certi colori notturni, nonché nella tematica patriottica, quasi epica dello scontro di due popoli. Nel 1826, all’epoca della composizione, era di piena attualità il massacro di Missolungi, che aveva segnato la caduta della città greca in mano turca dopo una resistenza disperata e sanguinosissima, cosa che aveva indotto Rossini, alle prese con il rifacimento per le scene parigine del Maometto II, a spostare la vicenda dall’assedio di Negroponte, possedimento della Serenissima, a quello di una città greca, sposando così il sentimento filo-ellenico che stava serpeggiando in tutta Europa.
Nel progetto di regia di Carlus Padrissa, a capo della compagnia catalana La Fura dels Baus, il conflitto tra turchi e greci, musulmani vincitori e cristiani schiacciati dall’inarrestabile avanzata dell’Impero Ottomano, viene trasformata in una guerra tra due imprecisate fazioni di derelitti assetati, che in un altrettanto imprecisato futuro lottano per strapparsi il bene più prezioso in un mondo dalla terra spaccata e arsa, devastato dalla siccità, forse reso invivibile dai disastri ecologici perpetrati dall’uomo. L’acqua e la sua mancanza sono i temi che pervadono l’allestimento scenico: la desolazione del deserto e i cumuli di contenitori di plastica ormai vuoti, impilati a costituire, o meglio a suggerire, le mura della città assediata. I pochi bottiglioni che entrano in scena pieni sono sottolineati dallo scintillio di luci a led immerse nell’acqua, che si spengono appena viene bevuta l’ultima goccia; il fondale è animato da proiezioni di versi di Byron, paladino della causa greca, morto a Missolungi, e da video dell’artista Lita Cabellut. Sono opera sua anche i quadri che compaiono in scena, elaborazioni fotografiche dalla forte carica drammatica, e la composizione gigante di fiori ormai secchi a simboleggiare l’imminente caduta della città.
Ne risulta un’interpretazione di grande potenza espressiva e di notevolissimo impatto visivo, una rappresentazione complessiva ricca di simboli, non tutti di facile decifrazione, di sicuro impatto, di scottante attualità, per il tema ecologico trattato, di una bellezza scabra e violenta, come sempre accade negli spettacoli che La Fura dels Baus porta in scena. L’impressione però è quella di due piani che comunicano solo sporadicamente: da una parte c’è la performance fatta di coreografie, video, opere d’arte, illuminata sapientemente dalle luci di Fabio Rossi, dall’altra c’è l’Opera di Rossini; alcune trovate sono felici, drammaturgicamente interessanti, persino commoventi, come quando nella penultima scena Pamyra e Isméne imprimono un movimento cullante ai fiori morenti sospesi dall’alto, dando alla loro melodia il significato di un compianto funebre che ha la dolcezza di una ninna-nanna. Ma più spesso è proprio l’abbondanza di trovate, di eventi scenici, la iperstimolazione visiva, persino olfattiva – turiboli d’incenso accesi, portati in giro per la platea, a sottolineare la sacralità del momento in cui i greci decidono per la resistenza fino alla morte e il sacrificio collettivo – che rischia di non servire il dramma, se non addirittura di distrarre.
L’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, al suo debutto al Rossini Opera Festival come orchestra principale in avvicendamento con l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, ha offerto una prova di altissimo livello, per la bellezza, la compattezza del suono, la precisione ritmica, la levigatezza e l’eleganza nel realizzare le variazioni dinamiche e agogiche impresse dalla bacchetta del direttore; Roberto Abbado sale sul podio indossando un immobilizzatore per la spalla destra, ma, anche se limitato nei movimenti, ottiene solennità coniugata a brillantezza, continuità di tono, un ventaglio dinamico ampio ma mai dimesso né chiassoso, la nobiltà e il pathos nei momenti di eroismo collettivo e il ripiegamento e la dolcezza negli episodi lirici. Ugualmente ottimo è il rendimento del Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno nelle molte scene di assieme, nelle quali è particolarmente impegnato il settore maschile, oltre che nel grandioso finale.
Nel cast vocale si segnala un quartetto di protagonisti complessivamente di valore. Il tenore John Irvin, nei panni di Clèoméne, governatore di Corinto e padre di Pamyra, ha uno strumento solido e levigato, omogeneo dai suoni gravi particolarmente sonori a una salita al settore acuto facile e sufficientemente penetrante; con l’età e l’esperienza troverà maggiore incisività e l’accento perentorio consoni ad un personaggio anziano e autorevole. Un po’ troppo simile al suo è il timbro del tenore Sergey Romanovsky, tanto da poterli scambiare l’uno per l’altro in un attimo di distrazione; l’interprete dell’innamorato Néoclès offre però una prova notevole in un ruolo non facile; ha bisogno di scaldarsi, dopodiché dimostra buona padronanza di uno strumento gradevole e facile alla salita, nella quale gestisce con accortezza i suoni misti, ad eccezione di una occasionale puntatura con suono di testa troppo sbiancato; è capace di cantare piano e pianissimo mantenendo la proiezione, sa essere fiero e affettuoso, ha un’ottima dizione e una buona presenza scenica. Ancor più incisivo e carismatico scenicamente è il Mahomet di Luca Pisaroni, il quale vanta anche un timbro molto bello e un volume imponente; il canto non è sempre perfetto, qualche coloratura è faticosa, la salita all’acuto è a volte nasale a volte di fibra, mentre il settore centrale è saldo e “a fuoco”; il suo personaggio, fortemente sbalzato, suscita grande apprezzamento dal pubblico. Nino Machaidze ha uno strumento sonoro, corposo anche nel registro medio, che le consente di imporsi con autorità; le colorature hanno a volte qualcosa di meccanico, pur nella precisione ritmica e di intonazione, mentre i passi cantabili risultano più morbidi e fluidi; l’interprete nel complesso è partecipe e convincente, anche grazie alla bella presenza scenica. Carlo Cigni ha l’autorevolezza scenica e vocale che il ruolo richiede e che fa emergere il suo personaggio in particolare nel terzo atto; il timbro non è levigato, ma efficace nel delineare una solidità quasi rocciosa. Nei ruoli minori si apprezzano il bel timbro e la morbidezza di canto della Isméne di Cecilia Molinari, matura ed espressiva anche nell’azione scenica. All’altezza del compito sono anche il tenore Xabier Anduaga, dal timbro chiaro e squillante e il baritono Iurii Samoilov che canta con emissione facile e levigata le sue frasi. La sala, benché non del tutto piena, alla fine dell’opera esplode in acclamazioni sonore e convinte per tutti gli interpreti e per il direttore; il pubblico non si stanca di applaudire, batte ritmicamente i piedi, festeggia, manifestando grande entusiasmo nei confronti dello spettacolo e degli interpreti; le ovazioni più lunghe toccano a Nino Machaidze e a Luca Pisaroni.