Venezia, Teatro La Fenice, dal 26 luglio al 6 agosto
“FENIX DNA”
Opera sperimentale di Fabrizio Plessi
Musiche Giovanni Sparano
Mezzosoprano Francesca Gerbasi
Pourquoi-Pas Ensemble
Direttore Alvise Zambon
Commissione Fondazione Teatro La Fenice
Prima esecuzione assoluta
Venezia, 26 luglio 2017
La Fenice mette in scena se stessa, la propria essenza profonda, il suo stesso genoma, da cui traggono origine la bellezza e la forza, che il teatro veneziano tradizionalmente esprime, oltre alla capacità prodigiosa di rinnovarsi, di risorgere sempre e comunque dalle proprie ceneri, come testimonia il nome stesso che porta. Artefice di questa inedita operazione culturale è un artista di fama internazionale, profondamente legato a Venezia, Fabrizio Plessi, nato a Reggio Emilia, ma veneziano d’adozione, per aver compiuto i suoi studi nella città lagunare presso l’Accademia di Belle Arti, dove ha poi insegnato per molti anni, oltre che per aver partecipato a ben quattordici edizioni della veneziana Biennale Arte, dal 1970 al 2011, presentando, in quest’ultima edizione, i suoi “Mari verticali”. Promotore di tale iniziativa è il Gruppo Generali Italia – anch’esso legato a Venezia e al suo teatro più prestigioso da un vincolo antico e profondo – all’interno del progetto Valore Cultura, finalizzato a diffondere l’arte e la cultura su tutto il territorio italiano, attraverso occasioni di fruizione artistica che siano accessibili ad un pubblico sempre più vasto.
Come si è accennato di sfuggita, l’acqua è, insieme al fuoco, uno degli elementi presenti da sempre nel DNA di Plessi, ricorrendo nella sua attività creativa. Ma questi due elementi primordiali percorrono, nel bene e nel male, anche la storia di Venezia e del Teatro La Fenice. È naturale, dunque, che siano protagonisti dell’installazione visiva e sonora ideata da Plessi, che si inquadra nella sua ricerca della gesamtkunstwerk (“l’opera d’arte totale” di wagneriana memoria), incorporando musica e immagini in un contesto architettonico e facendo ampiamente ricorso alla più sofisticata tecnologia multimediale: ne risulta un’altra affascinante realizzazione nell’ambito della video-arte, rispetto alla quale Plessi è uno degli indiscussi maestri del nostro tempo. L’artista reggiano svuota la platea delle poltrone e la cosparge di cenere nera (inutile indicarne il chiarissimo significato), su cui colloca, in modo disordinato a formare un labirinto, duecento calchi in gesso ancora protetti da semplici telai lignei – così come li ha trovati quasi per caso nei depositi della Fenice a Marghera –, a suo tempo realizzati dall’artigiano veneziano Guerrino Lovato, quali prototipi delle sculture e dei bassorilievi, che avrebbero nuovamente ornato la cavea del teatro, una volta risorto dopo il devastante incendio del 1996: elementi positivi, che assurgono a simboli della rinascita del tribolato teatro veneziano. I visitatori assistono dai palchi – anch’essi privi di sedie – a una performance audiovisiva, che riporta La Fenice ad un momento in cui – non essendosi ancora compiuta la sua ricostruzione – essa, in assenza di pubblico, si presenta come uno spazio non funzionale, immerso in un’atmosfera tra il metafisico e il primordiale, illuminato da luci, che si succedono variamente e intensamente colorate – dal bianco, al rosso, al blu –, mentre sullo sfondo del palcoscenico prendono forma immagini digitali, di grande suggestione, evocanti prima il fuoco e poi l’acqua, che appaiono inizialmente come piccoli accenni, per poi ingrandirsi ed assumere gradatamente la forma di un grande cerchio e infine formare, a caratteri cubitali, la scritta DNA. Il tutto poi si trasmuta in un susseguirsi minaccioso di fulmini, dal significato simbolico, anche in questo caso, alquanto evidente. A commentare le immagini e i reperti sparsi in platea, scorre la musica, di volta in volta tellurica o spettrale – che ben si sposa con gli aspetti visivi dello spettacolo –, appositamente composta da Giovanni Sparano ed eseguita, sotto la direzione di Alvise Zambon, dagli strumentisti del Pourquoi-Pas Ensemble, cui si unisce, con efficace espressività, la voce del mezzosoprano Francesca Gerbasi, che è l’unica ad apparire sulla scena. Tutti i suoni sono ovviamente amplificati, contribuendo alla suggestione irresistibile da cui sono coinvolti i visitatori, che hanno salutato la fine della performance con un lungo, probabilmente catartico, applauso. Foto Michele Crosera