Martina Franca, 43° Festival della Valle d’Itria 2017: “Orlando Furioso”

Martina Franca, Palazzo Ducale
ORLANDO FURIOSO”
Dramma per musica in tre atti libretto di Grazio Braccioli
M
usica di Antonio Vivaldi
Orlando SONIA PRINA
Angelica MICHELA ANTENUCCI
Alcina LUCIA CIRILLO
Bradamante LORIANA CASTELLANO
Medoro KONSTANTIN DERRI
Ruggiero LUIGI SCHIFANO
Astolfo RICCARDO NOVARO
Nel coro: Elena Tereschenko, Alessandra della Croce, Cristina Fanelli (soprani) Antonia Fino, Sofia Tumanyan, Rossella Giacchero (mezzosoprani) Domenico Pellicola, Nico Franchini (tenori) Laurence Meikle, Dielli Hoxha, Massimilano Guerrieri (bassi)
“I Barocchisti”
Direttore Diego Fasolis
Maestro del Coro
Ferdinando Sulla
Maestro al cembalo e assistente del direttore d’orchestra Andrea Marchiol
Maestro di sala e al cembalo Ettore Papadia
Regia Fabio Ceresa
Scene Massimo Checchetto
Costumi Giuseppe Palella
Lighting designer: Giuseppe Calabrò
Coreografie: Riccardo Olivier
Martina Franca, 14 luglio 2017
A ridosso del 500° anniversario del Furioso di Ariosto (1516-2016), il Festival della Valle d’Itria, in co-produzione con la Fenice di Venezia, sceglie come melodramma d’avvio della sua quarantatreesima edizione l’Orlando di Vivaldi (Venezia Teatro S.Angelo novembre 1727), un’opera che nella sua prima ripresa in tempi moderni al Filarmonico di Verona nel 1978 diretta da Claudio Scimone anticipò l’attuale fenomeno di riscoperta e valorizzazione in sede esecutiva dell’opera seria settecentesca. L’Orlando furioso (questo il titolo che compare nella partitura autografa) fu poi gratificato di ben tre registrazioni: Federico Maria Sardelli nel 2002 (curatore, per Ricordi, dell’edizione critica della partitura), Jean-Christophe Spinosi nel 2004 e Andrea Marcon nel 2008. Dunque non può certo dirsi la presentazione d’un inedito, come vorrebbe la tradizione del festival di Martina Franca; si tratta, invece, d’una riconferma e d’una sfida: quella di dimostrare che la dimestichezza con il ‘dramma per musica’ è possibile non solo per i titoli di Händel, ma anche per quelli degli operisti italiani. Nessuno ha la pretesa che l’opera eroica del XVIII secolo divenga di ‘repertorio’ al pari di Verdi e Puccini (il solo pensarlo sarebbe un’aberrazione storica prim’ancora che estetica); l’auspicio è semmai di riuscire ad attribuire a quel repertorio la possibilità di fruttuosi ritorni, analoghi a quelli conosciuti negli ultimi tre decenni dai titoli seri rossiniani riscoperti dal ROF di Pesaro. In questo senso il ruolo del Valle d’Itria è protagonistico nel panorama italiano e internazionale e, non a caso, nella presente edizione compie un passo in avanti decisivo: ospitare un intero complesso orchestrale che suona strumenti ‘originali’ e che domina la prassi storicamente informata per la prima volta anche nel cortile del Palazzo Ducale (qui l’Ensemble barocco dell’Orchestra Internazionale d’Italia fu presente solo nel 2012 per l’Artaserse di Hasse). I Barocchisti – uno dei più prestigiosi ensembles barocchi (mi si passi il termine ‘barocco’, mai ascoltato in vita da Bach, Vivaldi ed Händel, ma ormai radicatosi nelle nostre categorie estetiche) – diretti al cembalo da Diego Fasolis, stanno infatti instillando la passione per la musica settecentesca finanche alla Scala, tempio dell’operismo romantico e pucciniano, grazie al ‘Progetto Händel’; chi meglio di loro può avvicinare il grande pubblico a un mondo musicale ritenuto ostico e che invece rivela una godibilità estrema? (lo spettacolo che qui si recensisce è terminato alle ore 1.15 del mattino, complice un inizio ritardato dalla pioggia inattesa, ma nessuno degli entusiasti spettatori, peraltro provati da un drastico crollo della temperatura, ha lasciato la propria poltrona). Diego Fasolis del resto è sempre molto abile nell’esaltare (a volte nell’amplificare) gli elementi più accattivanti delle partiture settecentesche: di Vivaldi ha reso più languidi i tempi lenti, ha impresso una verve ritmica irresistibile agli Allegri, ha giocato con un vero e proprio caleidoscopio di colori dinamici in orchestra e con i cantanti ha lavorato di dettaglio sulle nuances nei numerosi segmenti ariosi (quelli, cioè, formalmente più fluidi e memori di un fare melodramma rivolto al mondo del Seicento). Grazie a queste scelte interpretative, lontane da certa frigidezza impettita degli alfieri più ortodossi della early music, le tre ore di spettacolo sono trascorse con rapida piacevolezza.
A questa gustosità ha di certo contribuito la revisione drammaturgica operata sul testo di Grazio Braccioli (1715) dal regista/librettista Fabio Ceresa (classe 1981, al debutto come regista lirico nel 2010), che conferma un talento straripante e una rara sensibilità verso le logiche del melodramma, risolte attingendo alla gestualità del teatro sperimentale contemporaneo. Nel 1727 per il pubblico veneziano l’assistere all’Orlando di Vivaldi faceva parte di un rito societario; l’attenzione a quanto avveniva in scena era intermittente; i nostri concetti di ‘opera d’arte’, ‘autorialità’, ‘creatività innovativa’ non esistevano, non solo per gli spettatori, ma neppure per i compositori che com-ponevano, ossia mettevano insieme, schemi formali collaudati e stereotipati. Per questo oggi non è proponibile ascoltare un melodramma di quegli anni nella sua integrità (a patto di non recuperarne anche il contesto fruitivo!). Nella maggior parte dei moderni allestimenti, però, i necessari tagli fanno letteralmente a pezzi il dramma rendendolo insensato. Ceresa ha operato invece una perfetta riconfigurazione della vicenda cavalleresca – forte dell’esperienza, lo scorso anno, con il prequel vivaldiano Orlando finto pazzo, 1714, alla Korea National Opera – preservando le dinamiche relazionali dei due triangoli amorosi (Alcina vs Ruggiero-Bradamante; Orlando vs Angelica-Medoro) rotanti intorno al ‘personaggio pivot’ Astolfo. La definizione che Ceresa ha dato dei personaggi – Alcina puro furor eroticus, Orlando tormentato sessuofobo, Ruggiero astratto lunaire, Angelica e Bradamante rappresentanti del lato positivo della sfera femminina, Astolfo uomo fallibile ma che prende in mano, risolvendola, la situazione – è stata completata dalle scene di Massimo Checchetto, dagli splendidi costumi di Giuseppe Palella, dalle raffinate luci di Giuseppe Calabrò, e dalle coreografie di Riccardo Olivier, mai ingombranti o superflue. In questo spettacolo, infatti, le scene e i costumi hanno dimostrato di possedere un ruolo che può dirsi a pieno titolo ‘narrativo’ poiché hanno guidato il pubblico all’interno del plot e dato corpo visivo agli ambienti metaforici del libretto. La seconda e l’ultima delle nove mutazioni (questo il nome settecentesco dei cambi di scena) previste nel 1727 prescrivevano «Mare tempestoso in lontano» e «Mare in lontano con navi da imbarco». L’immagine metaforica del mare (burrascoso all’inizio della vicenda, placido nel suo scioglimento) ha colpito la fantasia del regista che ha aperto e chiuso l’opera con scene di pesca: all’inizio ad imbracciare le lenze erano tre comparse alle prese con una grossa preda, alla fine il solo Orlando (evidentemente non del tutto rinsavito). La fantasmagoria continua che sostanzia questo melodramma ancora intriso della visività barocca, portava dal mare al cielo: al centro del palcoscenico campeggiava una luna (che ricordava quella del film Voyage dans la lune di George Méliès, 1902) ottenuta grazie a una struttura semisferica rotante che nella sua parte concava si mutava nel palazzo incantato d’Alcina. La corporeità dei ballerini della compagnia Fattoria Vittadini e l’opulenza degli abiti (ricchissimi di strass e di dettagli degni del decorativismo di Gustav Klimt) ben rappresentavano i piaceri carnali esaltati dalla maga. Suggestiva l’idea di mettere in scena alcune delle più icastiche descrizioni ariostesche: l’archibugio (Canto IX ottava 74-75) col quale Alcina tenta di uccidere Orlando addormentato; e, soprattutto, l’enorme ippogrifo (Canto IV, ottave 18-19), qui animato al suo interno da due figuranti-burattinai, che assurge al rango di ottavo personaggio. Nel libretto del 1727 vi si allude di sfuggita nella scena I.11 ma per Ceresa l’ippogrifo – considerato anche alla luce della rilettura di Italo Calvino – diventa il simbolo di un mondo ‘leggero’ opposto a quello di Alcina (che infatti lo trafigge estraendone il cuore). Un altro aspetto saliente di questa regia è stato il voler inserire nella recitazione elementi quasi comici e grotteschi (Medoro naufrago che svuota gli stivali dall’acqua, Alcina buffa doppiogiochista che mentre bacia Orlando ammicca a Ruggiero, la pazzia scomposta di Orlando che si infratta sotto la gonna d’Alcina) plausibili se si considera che fino a pochi anni prima nelle opere serie continuavano ad agire personaggi buffi (cfr. il Bajazette di Leonardo Leo del 1722) e che tratti da commedia possono rintracciarsi pure nel primo Metastasio.
Poche le parole da spendere sul cast vocale perché si è dimostrato ineccepibile. L’Orlando è un’opera scritta per ben cinque contralti (all’epoca di Vivaldi non esisteva la definizione di mezzo-soprano), affiancati da un soprano e un basso. Nel 1727 al contralto en travesti Lucia Lancetti fu affidato il ruolo eponimo che oggi è stato magistralmente interpretato da Sonia Prina. È superfluo elogiare il dominio dell’arte della coloratura di questa cantante – un’autentica ba-rock star a livello mondiale – che continua a stupire anche per un’attorialità capace di farla scomparire dentro il personaggio di cui veste i panni (memorabile il monologo della pazzia d’Orlando che chiude l’atto secondo). La bravura nell’articolare le singole note dei passaggi di agilità le viene da una dimestichezza con quel «percotere bene la gorgia» tipico del repertorio monteverdiano da lei tanto amato e messo a frutto anche nella declamazione dei recitativi. Ottima sia l’Alcina di Lucia Cirillo, di timbro prezioso e di grande presenza scenica, sia l’Astolfo di Riccardo Novaro, voce possente e al tempo stesso elegante, specie nelle colorature. A questi tre specialisti del repertorio settecentesco si affiancavano giovani voci molto promettenti: prima fra tutti il soprano Michela Antenucci che, superata una certa tensione iniziale, ha saputo dar sfoggio della propria bravura tanto nelle agilità quanto nei sempre insidiosi recitativi; delicata ma cristallina la voce del contraltista Konstantin Derri, pregevole per una perfetta dizione recitativa; a Luigi Schifano, che in pochi giorni ha preparato la parte di Ruggiero in sostituzione di Philipp Mathmann, salvando di fatto l’intero spettacolo, non possono che andare elogi e la circostanza giustifica qualche suo neo interpretativo; interessante l’espressività di Loriana Castellano alle prese con la parte di Bradamante dalla tessitura di poco più bassa rispetto al range vocale a lei più congeniale, ragion per cui si sono mostrate consone le variazioni delle sue arie nella zona più acuta. Bravi i ragazzi dell’Accademia di Belcanto “Rodolfo Celletti”, impegnati nei brevi inserti corali. Lo spettacolo si replica il 31 luglio. Foto Conserva P.