Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2016-2017
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Riccardo Frizza
Silvia Colasanti: “Ciò che resta” – prima esecuzione assoluta
Franz Schubert: Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore D 485
Gino Marinuzzi: Sinfonia in La
Venezia, 17 giugno 2017
È giunta felicemente alla conclusione la Stagione Sinfonica 2016-2017 della Fondazione Teatro La Fenice con un concerto diretto da Riccardo Frizza, il cui programma presenta come titolo d’apertura Ciò che resta di Silvia Colasanti, una nuova commissione nell’ambito del progetto “Nuova musica alla Fenice”, realizzato con il sostegno della Fondazione Amici della Fenice e lo speciale contributo di Marino e Paola Golinelli. Questo nuovo lavoro è – per citare le parole della stessa autrice – “una riflessione sul lascito del nostro passato più o meno recente, visto da chi come noi ha la fortuna di poter guardare il respiro lungo di un’epoca, e far convivere in una nuova opera le nostre radici più lontane – in questo lavoro quelle di Monteverdi – con le più avanzate conquiste della recente avanguardia. Ma la riflessione si estende anche a ciò che resta del suono dopo il suo attacco, ai suoi diversi modi di svanire, esplorati attraverso l’utilizzo di echi e risonanze che impregnano le arcaiche armonie utilizzate con una sorta di ‘nostalgia del futuro’”. Come si vede, anche questo brano rientra, a suo modo, nel quadro delle celebrazioni monteverdiane, in occasione delle quali la Fenice ha proposto – insieme a un convegno di studio – una pregevole edizione della trilogia composta da L’Orfeo, Il ritorno di Ulisse in patria e L’incoronazione di Poppea. Quello firmato dalla Colasanti è un pezzo per orchestra, di circa una decina di minuti, fatto di mezze voci e note tenute, tra rarefazioni sonore e moderati crescendo, evocante atmosfere incantate alla Charles Ives. La calligrafica ricerca sul suono si traduce in una diffusa staticità appena increspata dal trascolorare dei timbri e da tenui variazioni agogiche, che verso la fine si fanno più accentuate, andando dal pianissimo al forte, culminante nell’intervento delle percussioni. L’orchestra, sapientemente guidata da Frizza, ha reso con impeccabile precisione e musicalissimo senso del colore questa fascinosa Klangfarbenmelodie (melodia di timbri) – per dirla con Schönberg –, che ha confermato Silvia Colasanti come una compositrice tra le più prestigiose nel panorama italiano.
Come secondo titolo in programma compare la Quinta sinfonia di Schubert, il sommo compositore viennese, la cui produzione per orchestra costituirà uno dei motivi conduttori della prossima stagione sinfonica. La Sinfonia in si bemolle maggiore, composta, tra il settembre e l’ottobre del 1816, da uno Schubert appena diciottenne, segna la fine del suo ciclo sinfonico adolescenziale. Rispetto alla precedente – dal carattere prevalentemente solenne – rappresenta uno squarcio di leggerezza, intimità, raccoglimento, anche grazie al suo impianto, si può dire, cameristico: l’organico non prevede timpani né trombe, né clarinetti, proprio come avviene nella prima versione della Sinfonia K 550 di Mozart – nella successiva i clarinetti verranno inseriti –, capolavoro assoluto del Salisburghese, rispetto al quale la sinfonia schubertiana rivela più di qualche somiglianza – oltre che nella veste strumentale – anche nella tecnica compositiva e negli evidenti riferimenti tematici, tra cui – nel Minuetto – una citazione quasi letterale dal movimento corrispondente della sinfonia di Mozart. E una leggerezza tutta mozartiana ha percorso l’esecuzione della partitura schubertiana da parte del bravissimo Riccardo Frizza, che ha trovato sempre il giusto accento, elegante e lieve o incisivo e brillante, riuscendo a offrire una lettura, che guardava nel profondo di questa musica, in cui l’omaggio a Mozart e, in particolare alla Sinfonia in sol minore è certamente riconoscibile, seppure la tonalità d’impianto scelta da Schubert, corrispondente alla relativa maggiore, conferisca al lavoro un tono generale classicamente sereno.
La serata si è conclusa con un’opera di tutt’altro tenore, caratterizzata addirittura – a nostro avviso – da una certa ridondanza sonora; una partitura a lungo dimenticata e solo di recente riemersa dall’oblio. Si tratta della Sinfonia in la di Gino Marinuzzi, ritenuto dal musicologo Paolo Isotta non solo il più grande direttore d’orchestra del Novecento tout court, ma anche uno dei più grandi compositori del secolo scorso. Nato a Palermo nel 1882 e morto a Bratto (sulle Prealpi varesine) il 17 agosto del 1945, Marinuzzi salì per a prima volta sul podio a 19 anni, al Teatro Massimo di Palermo, per dirigere Il Rigoletto, mentre fece la sua ultima apparizione in qualità di direttore alla Scala, il 24 aprile 1945, per il Don Giovanni di Mozart. Poche sono le registrazioni che ci sono rimaste, in quanto le numerose matrici incise per la Telefunken andarono completamente distrutte dai bombardamenti. Il suo successo come direttore gli sottrasse tempo da dedicare alla composizione, così il catalogo delle sue opere è ristretto: tra esse – oltre a tre drammi musicali – troviamo, in ambito sinfonico, la Suite siciliana del 1910, il Poema sinfonico Sicania del 1913, appunto, la Sinfonia in la del 1943.
Quest’ultima è una composizione moderna e raffinata, composta a Milano, sotto le bombe degli Alleati, e – come abbiamo detto – da poco riscoperta, come molti lavori del musicista palermitano. La sinfonia – Marinuzzi era anche un latinista – è influenzata dalla cultura classica e, in particolare, da Virgilio, pur risentendo, ovviamente, anche della tragica situazione in cui vide la luce. Il primo tempo (Apertura) è modellato sulla forma-sonata; il secondo (denominato Georgica, in onore a Virgilio) evoca il volto terribile, ma anche consolatore della Natura; il terzo (Ditirambo), che ricrea l’atmosfera dei riti dionisiaci dell’antica Grecia, è una pagina di estrema arditezza ritmica, e costituisce, nel contempo, una concitata denuncia dell’orrore della guerra: un tema, tra l’altro, presente anche negli ultimi libri dell’Eneide. Magistrale l’esecuzione offerta da Frizza di questo lavoro, che stupisce per la sua complessità, basandosi su una solida struttura contrappuntistica e su armonie che nascono dall’incrocio delle varie linee lungo cui essa si snoda, per non parlare della prorompente bellezza dell’orchestrazione. L’assoluto dominio della partitura da parte del direttore – sorretto da un’orchestra, che può definirsi ancora una volta “di solisti”, senza nulla togliere al perfetto insieme di cui si è dimostrata capace – ha fatto sì che il complesso linguaggio di Marinuzzi risultasse agli ascoltatori espressione di chiarezza e semplicità, che poi sono le caratteristiche della grande musica. Anche per questo la serata si è conclusa con un trionfale successo.