Torino, Teatro Regio, stagione lirica 2016/17
“Macbeth”
Melodramma in quattro atti su libretto di Francesco Maria Piave e Andrea Maffei dall’omonima tragedia di William Shakespeare
Musica di Giuseppe Verdi
Macbeth DALIBOR JENIS
Lady Macbeth ANNA PIROZZI
Banco VITALIJ KOWALJOW
Macduff PIERO PRETTI
La dama di Lady Macbeth ALEXANDRA ZABALA
Malcolm CULLEN GANDY
Il medico, prima apparizione LORENZO BATTAGION
Un domestico di Macbeth, l’araldo GIUSEPPE CAPOFERRI
Il sicario MARCO SPORTELLI
Seconda apparizione FRANCESCA IDINI
Terza apparizione ANITA MAIOCCO
Duncano FRANCESCO CUSUMANO
Fleanzio NUNZIA LO PRESTI
Direttore Gianandrea Noseda
Regia Emma Dante
Scene Carmine Maringola
Costumi Vanessa Sannino
Coreografia Manuela Lo Sicco
Luci Cristian Zucaro
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Allestimento Teatro Regio Torino, Teatro Massima Palermo e Macerata Opera Festival
Torino, 25 giugno 2017
Non tutte le ciambelle escono col buco e al Teatro Regio di Torino è mancata proprio l’ultima candelina della splendida torta rappresentata dalla stagione 2017/18. Infatti il “Macbeth”, chiamato a chiudere, la stagione si è rivelato il titolo meno convincente dell’intera programmazione.
Gran parte della responsabilità di questa mancata riuscita va ascritta alla regia di Emma Dante, quasi grottesca nelle sue esasperazioni e priva di qualunque coerenza interna. L’impianto scenico di Carmine Maringola non manca di efficacia nella sua essenzialità con una grande cancellata bronzea formata da lance affiancate che componendosi e scomponendosi definisce i vari ambienti della vicenda creando squarci non privi di efficacia. Decisamente meno belli i costumi Vanessa Sannino, che troppo spesso davano l’impressione di eccessiva trascuratezza, pur senza cadute particolari. Quella che lasciava fortemente perplessi è, però, la gestione registica in senso stretto, non per l’ambientazione scelta – un universo fantasy-horror tra “Il trono di spade” e certi prodotti video ludici che per “Macbeth” non sarebbe così improprio – ma il fatto che quest’idea di fondo venga riempita e sovraccaricata di elementi stridenti. Si riconosco alcuni temi forti del teatro della Dante, esibiti però in modo decisamente contrastante con il contesto drammaturgico o in modo molto forzato. È il caso del tema della maternità e della contrapposizione fra la continua fertilità delle streghe e la sterilità della Lady, tema non così presente nella storia – e sicuramente privo di qualunque rilevanza in Verdi – ripetutamente declinato dalla regista con effetti spesso tragicomici (già l’orgia iniziale tra streghe e satiri con i suoi movimenti estremizzati risultava più ridicola che erotica, ma ancor più spiazzante il III atto fra streghe partorienti nei calderoni e satiri palesemente imbarazzanti intenti a coccolare bambolotti di plastica). Altro tema ossessivo e quella della religiosità e del simbolismo cristiano che raggiunge il culmine con il corpo di Duncano prima portato fuori e lavato con continue citazioni della deposizione di Cristo e poi portato in processione trafitto da spade come la Vergine dei sette dolori delle immaginette devozionali controriformiste.
Come sempre nella Dante, esibiti in modo quasi ossessivo, i richiami alla Sicilia e ai suoi simboli e se efficace risultava il cavallo spettro su cui entrava Macbeth – esplicita citazione del trionfo della morte di Palazzo Atabellis – decisamente meno convincenti il gesticolare da prefiche delle streghe o la trasformazione della foresta di Birman in un campo di fichi d’India. Per il resto un continuo alternarsi di fastidiose trovate – come commentare i lettini da ospedale che vorticavano intorno alla Lady durante la scena del sonnambulismo rendendo impossibile una giusta fruizione di uno dei momenti musicalmente più importanti dell’opera?! – e senso inarrestabile dell’horror vaqui (l’entrata di Duncano fra saltimbanchi, pastorelle di sapore arcadico e improbabili militi che non avrebbero sfigurato nelle magiche contrade di Oz); a completare il quadro effetti scenici da teatro di provincia anni ’50 (Banquo che si nasconde sotto la tovaglia che scosta per uscire al momento dell’apparizione), il lavoro di recitazione sui cantanti quasi nullo, la totale incapacità di muovere le masse quando non si tratta degli attori della sua compagnia. Il risultato: uno degli spettacoli più imbarazzanti visti a Torino – e non solo – ormai da diverse stagioni.
Le cose andavano decisamente meglio sul versante musicale, anch’esso non esente da pecche, ma comunque in grado di guadagnarsi una sufficienza complessiva. Gianandrea Noseda dirige un “Macbeth” cupo e ferrigno, poco propenso a sfumature – salvo ovviamente i momenti più connotati in chiave lirica come in “Patria oppressa”, la scena del sonnambulismo e anche il coro dei sicari, particolarmente riuscito nell’evidenziazione delle cellule ritmiche dell’accompagnamento orchestrale – con una ritmica molto marcata e sonorità imponenti e spesso quasi aspre nella loro ricerca di drammaticità: una lettura di assoluta compattezza teatrale, cui venivano sacrificati senza troppi rimpianti un approccio più sfumato e una lettura di più ampio spettro. Per quanto riguarda le questioni filologiche si è scelto il finale della versione fiorentina del 1847 con l’inciso “Mal per me che m’affidai” e senza il coro “Macbeth, Macbeth ov’è?”
Come sempre ottima la prova del coro diretto da Claudio Fenoglio e davvero non si comprende la scelta di non farlo comparire in proscenio al termine dell’opera per i meritatissimi applausi.
Sul piano vocale le maggiori perplessità erano suscitate dalla coppia protagonista. Dalibor Jenis avrebbe per Macbeth la voce giusta per timbro e robustezza e una presenza scenica rimarchevole, specie per un ruolo guerriero e regale come questo, ma a limitarlo non è tanto un’emissione non sempre ortodossa con più di un sentore di suoni ingolati, quanto l’assoluta piattezza espressiva di un canto che risolve tutto sul forte, senza dinamiche, senza sfumature, senza capacità di dare autentico senso a ciò che è cantato. Una prestazione portata in fondo con sicurezza sul piano prettamente vocale, ma senza traccia di un’emozione.
Più complesso il discorso sulla Lady di Anna Pirozzi – peraltro pesantemente penalizzata dalla regia e dal costume che toglie alla Lady ogni femminilità e ogni seduzione, pur non essendo difficile capire quanto grande debba essere il potere seduttivo e fascinatorio di questa donna per manovrare un marito non certo debole come Macbeth! – in quanto la voce è sicuramente rimarchevole, ampia, timbrata, facilissima negli acuti veramente penetranti e ricchi di armonici, ma resta l’impressione di un materiale sostanzialmente lirico spinto oltre i propri giusti limiti da un repertorio non così connaturato al suo strumento vocale. Il timbro – molto personale, anche se non bellissimo, almeno a parere dello scrivente – si altera ulteriormente, l’attenzione ai dati dinamici ed espressivi tende a ridursi e a lasciar spazio a un canto fin troppo monocorde; vero anche che la regia, al riguardo, per nulla l’aiuta: si vedano le frasi che nel finale del secondo atto andrebbero sussurrate all’orecchio di Macbeth e che la Dante le fa declamare da sola in proscenio, rivolta verso il pubblico. E non è casuale che dove senta di poter spingere meno – come nella scena del Sonnambulismo – la sua qualità naturali tornino ad emergere e tutto risulti più compiuto e coinvolgente.
Vero balsamo per l’ascolto il MacDuff di Piero Pretti: schietta voce tenorile bella e luminosa, ottimamente sorretta e di grande comunicativa; Vitalij Kowaljow è sempre abbastanza alieno come gusto ed emissione dal repertorio italiano – molto più congeniali a lui quelli tedesco e slavo – ma la voce non manca di imponenza e autorità, il timbro è molto bello – nonostante qualche inflessione un po’ cavernosa – e il personaggio comunque centrato.
Buone le numerose parti di fianco, compresi i solisti del coro di voci bianche nella scena delle apparizioni, con la parziale esclusione del Malcolm faticoso e timbricamente ingrato di Cullen Gandy, mentre sul versante opposto si è posta Alexandra Zabala che ha saputo far cogliere il suo talento anche in un ruolo così limitato come quello della Dama della Lady.