Madrid, Teatros del Canal, Temporada 2016-2017
“CARMEN”
Balletto in due atti
Coreografia Johan Inger
Musica Georges Bizet, Rodion Shchedrin, Marc Álvarez
Costumi David Delfín
Drammaturgia Gregor Acuña-Pohl
Scene Curt Allen Wilmer, Isabel Ferrández Barrios
Luci Tom Visser
Orquesta Sinfónica Verum
Direttore Manuel Coves
Carmen Sara Fernández
Don José Antonio de Rosa
Bambino Leona Sivôs
Escamillo Alessandro Riga
Zúñiga Daan Vervoort
Compañía Nacional de Danza
Madrid, 18 giugno
Accettare di preparare una nuova versione di Carmen è una sfida che deve ispirare rispetto. Carmen è infatti un classico del teatro musicale, con un forte carattere spagnolo e molti dettagli folclorici, amata e conosciuta in tutto il mondo, reinventata in mille modi; le versioni che si conoscono passano attraverso l’opera, il flamenco, la recitazione, la danza, e a questo punto innovare è sicuramente più difficile che inventare. Johan Inger, il coreografo ingaggiato dalla Compagnia Nazionale Spagnola per la nuova versione di Carmen, è di origine svedese, ha alle spalle una carriera notevolissima ed è stato premiato con il Benois de la Danse 2016 proprio per la coreografia commissionatagli da Madrid. Attualmente Inger è il direttore artistico del Cullberg Ballet di Svezia, l’istituzione in cui lavora sin dal 2003, e le sue opere formano parte del repertorio di tante compagnie importanti; il suo curriculum registra altri prestigiosi premi come il Lucas Hoving Production Award, Danza & Danza Award, Golden Theatre Dance Prize.
La Compañía Nacional de Danza si è presentata recentemente al Teatro Real di Madrid con una serata interamente dedicata a Forsythe: un omaggio impeccabile e meraviglioso, in cui la precisione e lo stile hanno sbalordito il pubblico. In questa occasione l’esito qualitativo è abbastanza differente, forse perché legato a un’occasione del tutto differente. I costumi di Carmen, per esempio, si devono allo stilista spagnolo David Delfín (1970-2017), prematuramente scomparso soltanto pochi giorni fa: il Teatro Canal dedica alla sua memoria le recite della produzione, che è una ripresa della prima assoluta del 2015. La Carmen di Inger è centrata sulla violenza, vista però da una prospettiva nuova, quella di un bambino quasi sempre presente sulla scena, testimone di ogni fase e sviluppo della tragica storia. Abbastanza vago e astratto il modo di raccontare la vicenda: l’unica scenografia è formata da porte mobili, disposte in fila e usate dai ballerini stessi per entrare in scena. All’inizio il bambino passa davanti alle porte, trovandole tutte chiuse, tranne l’ultima; di qui introduce alla prima scena, in cui Don José appare con due amici e successivamente incontra figure completamente in nero con il volto coperto: sono le ombre (secondo la denominazione d’autore di questi personaggi), che costantemente appaiono insieme ai caratteri principali. La seconda scena è fra le più belle dell’allestimento: sono impegnati tutti i personaggi maschili, a un livello coreografico, tecnico e creativo molto alto, ricercato, ben riuscito. Finalmente, poi, sul palcoscenico compaiono tutti: Carmen, Don José, Escamillo, Zúñiga, ragazze, soldati, anche se in tali momenti corali si nota una certa differenza di stili compositivi: dinamico e ricco di movimenti quello pensato per i ballerini, le cui movenze sono sempre pulite; un poco disordinato quello per le ballerine. L’artista che interpreta Carmen è Sara Fernández: capace di eseguire tutto ciò che le si richiede sul piano tecnico, è però povera di qualità personali e di credibilità nell’interpretazione. La sua Carmen non seduce, non magnetizza l’attenzione, non ha nulla di misterioso e di perturbante; le manca cioè tutto quello che la prospettiva del coreografo avrebbe dovuto accentuare, ossia la curiosità degli occhi di un bambino alle soglie della pubertà (i cui sguardi mescolano innocenza, tenerezza e morbosità). A volte lo spettacolo avanza un po’ faticosamente; l’idea di utilizzare le porte per variare la scenografia impone che siano i ballerini a spostarle, e dispiace vedere che questo implica uno sforzo, che toglie fluidità ai movimenti e alla successione dei numeri. In questi momenti di passaggio, per esempio, sarebbe stato molto funzionale l’apporto delle luci, che invece si è rivelato poco significativo. Il coreografo ha dichiarato di voler insistere sulla violenza della storia di Carmen; a dire il vero, l’unica scena che denuncia la violenza di genere si presenta verso la fine, quando le coppie ballano un breve passo a due e le porte formano un semicerchio intorno a loro; si vede chiaramente che le donne vengono maltrattate dal rispettivo partner, anche fino alla morte. In perfetto parallelo, poi, alla fine del I atto Zúñiga è ucciso da Don José con un colpo di pistola, come Carmen lo è alla fine del II, senza ulteriore sviluppo; si sperava in qualcosa di più dalla conclusione, nella proposta di un’altra morale, di un’altra faccia della vicenda, che però non c’è stata. Nel complesso, l’idea di riproporre Carmen con gli occhi di un bambino è molto interessante, ma non sembra ancora accompagnata da un adeguato e coerente lavoro coreografico; la Compañía Nacional de Danza dimostra un impegno molto apprezzabile, come testimonia l’entusiasmo del pubblico del Teatro Canal, gremito in ogni ordine.
Per quanto concerne la versione musicale di Rodion Shchedrin e Marc Álvarez, che gode di una certa diffusione internazionale, abbiamo chiesto al collega Michele Curnis di fornirci un parere. “Tranne i temi fondamentali e alcune elaborazioni armoniche, della partitura di Bizet si è perduto tutto; o meglio, ne aleggia un fantasma, scomposto e grottesco, dal momento che i due compositori si sono impegnati nella parafrasi a ogni costo, nell’arrangiamento armonico e strumentale, nell’inserzione di basi elettroniche e sequenze rumoristiche che imitano molto scopertamente lo stile di Thom Willems (senza però l’inventiva o l’originalità degli accostamenti che lo hanno reso celebre). La trasposizione può essere riassunta nella ricerca della trivialità, dell’eccesso, della violenza sonora oppure dell’esotismo facile e leggero; in altre parole, tutto quello che – sulla base del confronto con l’originale di Bizet – un direttore d’orchestra intelligente dovrebbe sforzarsi di evitare, qui è esaltato come fine. Perché tutto questo? Al di là delle impressioni soggettive e discutibili (per esempio la pervasiva presenza dello xilofono sin dalla sinfonia, il ruolo delle percussioni sempre in primo piano, del tamburo militare e della grancassa che trasformano quasi tutto in una marcia militare verso il patibolo), è innegabile che la nuova versione musicale penalizzi fortemente proprio il ruolo di Carmen. La totale cancellazione del personaggio di Micaela e dei suoi temi, in più, sottrae tutto il confronto di tipologie femminili differenti; e non c’è contropartita adeguata (non sono sufficienti i consueti inserti da L’Arlésienne). Alcune scelte precise hanno l’aspetto dell’errore, che svuota ulteriormente di profondità il personaggio di Carmen: il tema della morte apre il II atto, ma in una scena in cui la protagonista non compare; appena più meditato il riutilizzo del celebre entr’acte orchestrale, unica pagina che nel suo svolgimento mantiene l’orchestrazione originale di Bizet, mentre sulla scena si vedono Don José, Carmen e il Bambino in atteggiamento trasognato, come se vivessero momentaneamente un’impossibile dimensione famigliare di serenità e di pace. Di inserti corali affidati alla buona volontà del corpo di ballo, nel corso della canzone del torero, e di altri interventi parlati, è meglio tacere. La scelta agogica fondamentale di Shchedrin e Álvarez è la sincope, in cui quasi tutti gli sviluppi discorsivi tendono a paralizzarsi; forse adatta a una certa semplicistica idea musicale della Spagna, essa è però molto lontana dallo stile autentico di Bizet. Ma tutto questo importa poco, considerato che il pubblico del Teatro Canal sembra entusiasta anche della musica e dei suoi volenterosi esecutori”. Foto Teatros del Canal