Con la guida all’ascolto della Nona sinfonia si chiude il percorso dedicato alle nove sinfonie di Beethoven che, scritte in un arco di tempo di circa 24 anni dal 1800, anno della composizione della Prima, al 7 maggio 1824, giorno in cui fu eseguita la Nona, rappresentano una delle tappe fondamentali per lo sviluppo di questa forma; la produzione sinfonica di Beethoven, costituisce, infatti, uno dei punti di riferimento più importanti nella storia di questa forma, in quanto tutti i compositori, che lo seguirono, per questo genere, non hanno potuto prescindere dalla sua lezione, arrivando a casi estremi come quello di Brahms, che in un passo della sua Prima sinfonia s’ispirò, forse in modo non del tutto consapevole, a uno della Nona, o quello di Bruckner che, dopo aver numerato solo 9 sinfonie, riammise nell’elenco la seconda, chiamandola Die Nulte (La zero) per evitare di superare il limite dettato da Beethoven. Proprio per la sua importanza all’interno della produzione sinfonica occidentale si è deciso di partire dall’analisi delle Sinfonie di Beethoven, con la speranza di aver fatto qualcosa di gradito ai lettori di Gbopera.
Ludwig van Beethoven (Bonn 1770 – Vienna 1827)
Allegro ma non troppo, un poco maestoso – Molto vivace – Adagio molto e cantabile, Andante moderato, Adagio – Finale: Presto, Recitativo, Allegro assai, Presto, Recitativo, Allegro assai, Allegro assai vivace alla marcia, Andante Maestoso, Allegro energico sempre ben marcato, Allegro ma non tanto, Poco adagio, Prestissimo.
Durata: 71’ca
“L’ultima sinfonia di Beethoven è la redenzione della musica dal suo elemento più peculiare verso l’arte universale. È il vangelo umano dell’arte dell’avvenire. Dopo di essa non è possibile alcun progresso, perché non può seguirla immediatamente che l’opera più perfetta: il dramma universale, di cui Beethoven ci ha fornito la chiave artistica” (Richard Wagner, Opera d’arte dell’avvenire, Lipsia, 1849.)
Queste parole di Wagner, che suonano come una profezia nefasta per il genere sinfonico, pur smentite dai fatti e dalla grande stagione sinfonica che ebbe in Brahms, Strauss, Bruckner e Mahler alcuni importanti protagonisti, rivelano, tuttavia, la difficile eredità lasciata da Beethoven con questo lavoro dalle proporzioni monumentali per la dilatazione dei singoli movimenti e per l’organico senza precedenti che, oltre al coro e ai solisti, contempla la presenza di quattro corni contro i due solitamente presenti nelle partiture sinfoniche classiche, tre tromboni ed un’ampia sezione di percussioni mai utilizzati prima. Nessun compositore, infatti, poté prescindere dalla lezione offerta da Beethoven con la Nona sinfonia e, se Mahler partì dal carattere monumentale di quest’opera per costruire delle poderose architetture musicali, Strauss, molto probabilmente, si ricordò dell’impostazione in fieri del primo blocco tematico di questa sinfonia quando si accinse a comporre il tema iniziale del suo Also sprach Zarathustra (Così parlò Zarathustra).
Eseguita per la prima volta a Vienna al Teatro di Porta Carinzia il 7 maggio 1824 con un notevole successo, di cui Beethoven, ormai completamento sordo, si rese conto soltanto quando il soprano Henriette Sonntag gli indicò la folla acclamante, la Nona sinfonia fu composta nel triennio che va dal 1822 al 1824. I primi abbozzi, dei quali i più importanti riguardano il tema del Finale, tuttavia, risalgono al 1793, come si evince da una lettera del Consigliere di Stato B. Fischenich indirizzata alla figlia di Schiller, nella quale si fa cenno alla volontà di Beethoven di musicare l’Ode alla gioia del padre. Al 1795 risale, inoltre, la composizione di un Lied, la cui melodia conclusiva (Amore reciproco), riutilizzata in seguito nella Fantasia op. 80, anticipa quella dell’Inno alla gioia. Nel decennio, che intercorre tra la composizione della Settima e dell’Ottava sinfonia, completate entrambe nel 1812, sembra che Beethoven lavorasse a due progetti distinti, una sinfonia “classica” in re minore per la Società Filarmonica di Londra ed un’altra nella quale doveva essere introdotto un brano corale su un testo tedesco ancora non definito. Soltanto nel biennio 1823-1824 la sinfonia incominciò ad assumere la sua forma definitiva; nel mese di ottobre del 1823, infatti, era stata completata la composizione dei primi tre movimenti e nel febbraio del 1824 anche l’Ode schilleriana era conclusa.
Questa sinfonia costituisce, quindi, il lavoro dell’intera vita del compositore il quale la costruì a poco a poco in un continuo divenire che si configura come l’essenza stessa dell’opera. Dal suo ascolto si ricava l’impressione di un continuo passaggio dall’indeterminatezza e dall’imperfezione alla perfezione, dal dubbio alla certezza ed alla perentoria affermazione della verità di un genio artistico che crea dal nulla allo stesso modo del Caro padre celeste celebrato nel testo schilleriano dell’Ode An die Freunde (Alla gioia) su cui si costruisce il poderoso Finale. Tale sensazione è accentuata dal carattere unitario della sinfonia che emerge ancor di più nelle svariate e molteplici forme assunte, nel corso dell’opera, dalla semplicissima idea iniziale che trova soltanto nel tema dell’Ode alla gioia la sua compiutezza. Tutto nasce da un intervallo di quinta che nelle prime battute del primo movimento, Allegro ma non troppo, un poco maestoso in forma-sonata, conferisce a questo celebre incipit uno stato di indeterminatezza, accentuato dall’assenza della terza (Es. 1). Questo momento di indeterminatezza e, quasi, di incertezza, sembra superato nella violenta esposizione del vero e proprio primo tema, costituito dell’espansione melodica di questo primordiale intervallo e declamato dall’intera orchestra con i toni aggressivi del ritmo giambico all’interno del quale prende forma un semplice arpeggio dell’accordo di re minore (Es. 2). Tutto il primo movimento si costruisce in un continuo passaggio dall’indeterminato alla determinato, e viceversa; l’apparente serenità, che sembra aleggiare nell’arcadico secondo tema (Es. 3), esposto sull’accordo di dominante di si bemolle maggiore (tonalità anche questa insolita) e intonato dai legni che dialogano a coppie senza alcun contrasto, si rivela, infatti, piuttosto labile e facilmente attaccabile dal dubbio che si insinua nello sviluppo rivestendo, inizialmente, di forme sinuose, dolci ed accattivanti la melodia del primo tema.
Anche questa fase di dubbio e quasi di scetticismo, che raggiunge il suo punto culminante all’interno in un drammatico episodio contrappuntistico, ha, tuttavia, una vita molto breve ed è superata dalla perentoria ripresa dello stesso tema, che si afferma in re maggiore seguendo una caratteristica costante dell’intera sinfonia. In essa il contrasto tra tonalità maggiore e minore, metafora della contrapposizione dialettica tra dolore e gioia, è presente in tutti i movimenti della sinfonia eccezion fatta per il terzo scritto in si bemolle maggiore, ma si realizza pienamente soltanto nell’ultimo, dove la tonalità di re maggiore è affermata, a differenza degli altri movimenti, dove è solo sfiorata, limitata ad una fugace apparizione. La tonalità di re minore, inoltre, fu utilizzata da Beethoven soltanto in un’altra composizione, la Sonata op. 31 n. 2, nota con il titolo La tempesta, concepita in uno dei momenti più dolorosi della sua vita; la stesura di questa sonata, che dal punto di vista tonale segue un iter simile a quello della Nona in quanto presenta movimento, il secondo, in si bemolle maggiore, fu composta nel 1802, anno in cui Beethoven, diventato completamente sordo, aveva pensato al suicidio, come si legge nel drammatico testamento spirituale di Heilingestadt (6-10 ottobre 1802):
“Quale umiliazione ho provato quando qualcuno, vicino a me, udiva il suono di un flauto in lontananza e io non udivo niente, o udiva il canto di un pastore e ancora io nulla udivo. Tali esperienze mi hanno portato sull’orlo della disperazione e poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita”.
Nella Tempesta la tonalità di re minore, simbolo dello stato di dolore e disperazione in cui versava Beethoven, permea di sé tutta l’opera non lasciando mai posto al re maggiore, che, in questa sinfonia, se non altro, è sfiorato anche in quasi tutti i movimenti compreso il secondo Molto vivace, che, contrariamente alla tradizione, che prescriveva l’alternanza tra un tempo lento ed uno veloce, è uno scherzo in sostituzione del solito Andante o dell’Adagio. Questa scelta potrebbe essere giustificata dalla volontà del compositore di alleggerire con un ritmo di danza l’atmosfera cupa e tormentata del primo movimento. Anche questo secondo movimento scaturisce dall’intervallo di quinta iniziale, in quanto questo rapporto intervallare è conservato sia nell’incipit del tema dello scherzo sia nel tema del Trio dove è presentato in una forma melodica che anticipa la struttura di quello dell’Inno alla gioia. Lo scherzo, nella sua parte iniziale, si snoda in un ampio fugato che coinvolge gli archi. Il suo tema (Es. 4), esposto in minore, contrasta con il Trio che, come sempre, è in maggiore a prescindere dalla tonalità dello scherzo.
Per il terzo movimento, Adagio-Andante, giustamente definito come la celebrazione della Sehnsucht (malinconia), Beethoven si avvalse del principio della variazione. Questo movimento presenta due temi diversi, entrambi malinconici, dei quali il primo, dopo una breve introduzione dei legni (fagotti e clarinetti), deriva ancora dall’intervallo di quinta, mentre il secondo, esposto dagli archi, a cui di tanto in tanto si uniscono i fagotti, il primo oboe ed il flauto per sottolineare i punti più significativi, ha un carattere dolce che contrasta con quello meditativo del precedente. Il tema dell’Andante è così espressivo da aver indotto Arturo Toscanini ad avvalersi di un gesto piuttosto inusuale e consistente nel porre il pollice della mano sinistra sul cuore per comunicare all’orchestra di guardare alla propria sensibilità al fine di esprimere meglio la malinconia che promana da quel passo. All’esposizione dei due temi seguono, in successione, le variazioni del primo e del secondo ed una nuova variazione del primo, interrotta da uno squillo degli ottoni che turbano l’apparente serenità del brano e destano l’ascoltatore dall’atmosfera sognante che domina il movimento. Il principio della variazione informa anche il famosissimo Finale, difficilmente classificabile da un punto di vista meramente formale se non fosse per il fatto che il tema dell’Ode, vero protagonista del movimento, è continuamente variato. Straniante ed insolito è anche l’incipit di questo Finale per il suo carattere dissonante, ma teso a marcare una certa continuità con il movimento precedente se non altro da un punto di vista tonale. La continuità con il resto della sinfonia è accentuata, inoltre, dall’insistenza sull’intervallo di quinta, presente anche nell’attacco dei violoncelli che espongono il recitativo affidato, in seguito, al baritono. Il carattere unitario della sinfonia, che a livello profondo è ottenuto dal compositore con l’insistenza sul suddetto intervallo, si manifesta qui anche ad uno strato più superficiale con la ricapitolazione dei temi dei movimenti precedenti che interrompono il recitativo a cui segue, nella solare tonalità di re maggiore, l’esposizione del tema dell’Inno alla gioia (Es. 5) che, affidato inizialmente ai violoncelli e ai contrabbassi, passa gradualmente agli altri strumenti in una continua variazione coinvolgente le altezze ed i timbri, per essere perorato in tutta la sua forza nella parte finale dai legni e dagli ottoni.
L’intervallo di quinta alla base dell’intera sinfonia qui si dispiega nella sua forma melodica senza alcun indugio o ripensamento e, se la ripresa dello straniante incipit sembra riportare l’ascoltatore alla situazione iniziale, essa serve al compositore solo per introdurre il recitativo del baritono che intona dei versi scritti dallo stesso Beethoven: O Freunde, nicht diese Töne: sondern lasst uns angeneh mere anstimmen (Amici, non questi suoni! Intoniamone altri più gradevoli e gioiosi), con cui il compositore invita tutti a cantare la parola «Gioia» che, scrive ancora Wagner nel saggio citato in precedenza, era:
“necessaria, onnipotente, che tutto raccoglieva, ove la piena dei sentimenti che traboccano dal cuore poteva riservarsi intera, era il porto sicuro del viandante irrequieto, la luce che irradia la notte del desiderio infinito, la parola che l’uomo del mondo, redento, cacciò dal cuore dell’universo e che Beethoven pose come una corona ai culmini della sua creazione. “Gioia” era questa parola” (Richard Wagner, Op. cit.)
E gioia è, infatti, la parola intonata dal baritono che Beethoven si augurava di poter pronunciare ancora una volta proprio nei giorni disperati di Heilingestadt. Nel testamento si legge, infatti, questa preghiera:
“O Provvidenza – concedimi ancora un giorno di pura gioia – Da tanto tempo ormai non conosco più l’intima eco della vera gioia – Oh quando – quando, Dio Onnipotente – potrò sentire di nuovo questa eco nel tempio della Natura e nel contatto con l’umanità. –Mai? – No! Oh, questo sarebbe troppo crudele”
Questa crudeltà fu risparmiata a Beethoven e se nei tragici giorni di Heilingestadt sembra impossibile per il compositore qualunque moto di gioia come è dimostrato dalla permanenza nella Tempesta della tonalità di re minore, nella Nona il re maggiore dell’Inno diventa l’espressione di una felicità e di una serenità ormai pienamente raggiunta e derivata dalla consapevolezza che era riuscito a comporre nonostante il grave handicap fisico. Sembra, inoltre, che Beethoven abbia voluto affermare una religione della gioia attraverso una scrittura che recupera, da una parte, la struttura responsoriale con il dialogo iniziale tra il solista ed il coro che ripete Freude! (Gioia!) e, dall’altra, la tradizione luterana del corale con il coro che intona omoritmicamente il tema dell’inno. Il corale figurato, che caratterizza il nuovo ingresso del coro, non ha nulla da invidiare a quelli di Bach a cui rimandano anche l’alto magistero contrappuntistico della prima variazione affidata ai solisti e l’alternanza tra le diverse masse vocali; al coro rispondono, infatti, i solisti in un’interpretazione moderna ed originalissima della struttura del concerto grosso di tipo barocco.
La variazione Alla marcia, introdotta dai legni e dagli ottoni idonei a dare l’impressione di un complesso bandistico, vede come protagonisti le voci maschili, mentre il travolgente fugato affidato all’orchestra, che segue immediatamente, rappresenta un nuovo tributo da parte del compositore al contrappunto. L’episodio si conclude con un nuovo corale figurato in cui il tema viene ripreso nella sua interezza. Un momento di stasi, che interrompe il rapido fluire delle variazioni, serve al compositore per dare particolare risalto alla celebrazione di Dio, Caro Padre (Lieber Vater). Molto interessante è l’orchestrazione di questo passo nel quale sono privilegiati i fiati in una scrittura che ricorda i timbri dell’organo; in questo modo viene accentuato il profondo sentimento religioso che informa la suddetta preghiera e si esprime in una tensione verso il cielo quasi toccato dalla musica con gli strumenti e le voci che si inerpicano nelle zone più acute ed impervie delle loro tessiture. Dopo la preghiera la musica riprende il suo vorticoso movimento in una nuova fuga in cui il tema si presenta variato per l’ennesima volta. Il vortice si anima ancor di più nell’Allegro ma non tanto, dove il tema della gioia è variato in un giubilo di suoni e di voci a cui fa da contraltare la cadenza ieratica (Poco adagio) affidata ai solisti. La coda è costituita da un vorticoso Prestissimo che ha solo un momento di stasi quando il coro esalta in forma solenne la gioia. L’orchestra riprende il suo giubilante Prestissimo con una nuova variazione del tema della gioia che in un folgorio di timbri e di sonorità conclude il brano ribadendo la vittoria della gioia sulla tristezza e sul male nel solare re maggiore del tema. Quest’ultimo movimento rappresenta una mirabile sintesi della grande tradizione tedesca, dal momento che in esso sono presenti il corale protestante, la fuga, particolarmente amata dai compositori tedeschi, e, infine, il concerto grosso la cui presenza è evidente nel continuo alternarsi tra masse piccole e grandi. In quest’ultimo movimento la tonalità minore è limitata soltanto all’inizio, quando ancora la grande struttura corale non aveva preso forma, ed è sostituita da quella di si bemolle maggiore e re maggiore che conclude il brano affermando il trionfo della gioia. Parafrasando l’andamento del primo movimento si può dire che la Nona Sinfonia è in re minore, ma non troppo.